LA PALESTRA INTELLETTUALE

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Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto”: dobbiamo al Rinascimento, in particolare a Ludovico Ariosto, l’irruzione delle donne nel testo occidentale. Donne nella parola, donne protagoniste del romanzo e dell’avventura, non più sacerdotesse o arpie, dee o muse, come nella mitologia greca. Dissipati i regni d’Atena e di Medusa, il cattolicesimo, con donne che parlano ai pontefici come Caterina o che edificano monasteri come Chiara, aveva aperto la breccia, ma è con il rinascimento delle arti e delle invenzioni, dei mercanti e dei banchieri che si pongono le condizioni per uno statuto intellettuale delle donne. Con L’annunciazione di Leonardo da Vinci, ma non senza lo scritto di Leon Battista Alberti sulla misoginia. E essenziale risulta l’analisi della mitologia sulla donna, non solo sarda, compiuta da Bachisio Bandinu nel suo libro La donna, la maschera, lo specchio e nel dibattito pubblicato in questo numero della rivista.

Le donne non sono entrate nella parola con l’eros platonico o con l’amor cortese, che pure le hanno venerate, come supporto dell’androgino o dell’eterno femminino. Perché occorreva che sorgessero l’impresa, le banche, le assicurazioni rinascimentali? Per lo stesso motivo per cui le reazioni al rinascimento, la riforma e l’illuminismo, le hanno poi respinte dal mondo industriale e finanziario relegandole nell’ombra o nell’anonimato: le donne non sono una classe o un insieme, non esigono sudditanza o parità, dunque non corrispondono al canone professionale e confessionale, all’uniforme militare e religiosa, al moralismo del conformismo e dell’alternativa, sorti per limitare con i fatti la parola, con la sostanza l’intellettualità, con l’ideologia della morte la riuscita dell’impresa.

Quando non ci sono più né pienezza, né totalità, né venerazione, né rispetto, le donne irrompono nella parola. Senza la necessità di rivendicare una soggettività o un’oggettività, senza il bisogno di affermare diversità, complementarietà, pari opportunità, le donne offrono un apporto al secondo rinascimento della finanza, dell’imprenditoria, della comunicazione, che spazza via la mitologia della sostanza, del male, della morte, dominanti prima con la filosofia greca, poi con cinquecento secoli di illuminismo. Occorre un’impresa di cose infinite, insostanziali, in cui si corra il rischio di riuscita, rischio di verità e di riso. Un’impresa come palestra intellettuale, l’ha definita Armando Verdiglione nel master del brainworker del 26-27 febbraio scorsi. Un fitness senza sostanza e mentalità, per una ginnastica intellettuale la cui salute dipende dalla direzione del viaggio, dal cervello commerciale, finanziario, strategico. Quanto più il discorso occidentale ha negato il cervello alle donne tanto più lo ha mancato, applicando all’impresa il dialogo e la dialettica, e configurandola come organismo o sistema.

Eppure, c’è un anonimato da cui non si tratta di uscire, per venire alla luce o all’apoteosi. È un anonimato da assumere, strutturale, è quel “non” dell’avere (per esempio, dell’“avere” il nome) che sospende il potere femminile, ovvero l’obbligo occidentale per una donna d’essere la custode, la cinghia di trasmissione del nome, perché esso sia inscritto nella genealogia, nella famiglia, nella fabbrica dei sudditi. Ecco cosa venera nelle donne il femminilismo antirinascimentale e antindustriale, il loro presunto potere di significazione sociale. Del resto, operare lo scambio delle parentele, dalla famiglia d’origine alla famiglia dello sposo, non è il compito femminile anche per Claude Lévi-Strauss? Sovversiva allora risulta la formulazione di Armando Verdiglione, secondo cui, nella sintassi, la donna è indice dell’anonimato del nome. La cifrematica constata che il nome è senza nome, né possiamo darglielo: il presunto limite delle donne, l’anonimato è strutturale nella parola. Come potrebbe esserci comunicazione se fosse possibile sottoporre il nome al possesso o alla proprietà di qualcuno, perché sia prodotto, scambiato, inserito nella significazione generale? E se ci fosse chi detiene il nome, l’impresa diverrebbe una fabbrica di riproduzione di rapporti di padronanza, in cui maschile e femminile sarebbero generi, segni di una differenza soggettiva.

Audaci imprese, scriveva Ariosto. Le testimonianze delle donne imprenditrici in questo numero non reclamano parità, uguaglianza, alternativa. Non vogliono né conformarsi né diversificarsi dagli uomini, perché non partono dal riferimento a un genere. Nessun omaggio all’obbligo di rappresentare la differenza secondo cui ogni donna continua a prendere l’uomo (o l’altra donna) come riferimento per il fare, in assenza d’intellettualità. Con l’impresa come palestra intellettuale, dispositivo pragmatico e non prototipo della diversità, si dissipa la differenza dei sessi, per cui ciascuno si attiene al passo del tempo, non del soggetto. L’imprenditore non è sessuato, né androgino perché non è organico. E il genio femminile di Julia Kristeva è l’altra faccia dell’universo femminile di Lawrence Summers: cerca il simbolico materno, non può che rifarsi al matricidio, dunque incappare nella fine del tempo, dell’impresa, dell’Altro. Manca così quella politica della differenza e della varietà, politica pragmatica e senza segregazione che auspicano in questa rivista Silvia Noè e Anna Majani e che con il secondo rinascimento si annuncia – quando l’impresa è temporale e non finisce – come politica dell’Altro, dell’ospite, dell’infinito.