LA COSA POETICA

Qualifiche dell'autore: 
poeta, giornalista, Caporedattore del Giornale Radio RAI

Il mio primo libro di poesie s’intitolava L’infinito quotidiano. C’era già una vaga idea di poetica, in quel titolo, come un marchio sulla mia visione del mondo, sul modo di accostarmi alla realtà, tendendo le reti della fantasia. Cercare l’infinito quotidiano significa quotidianizzare l’infinito, ma anche dare una scossa ai semplici movimenti, alle emozioni primarie che hanno radici in qualcosa di più grande e che detengono, in proporzioni misteriose, riverberi d’infinito. Disponiamo di mezzi limitati, orfani, comunque, dell’assoluto.

Adesso, quest’ultima raccolta, Cose proprie, allinea, risistema, collega, dà l’allerta, segna un percorso fatto di tanti sassolini alla Pollicino, gettati però con metodo. Il metodo delle fiabe e delle ricostruzioni topografiche. I miei versi non vogliono dimostrare niente, solo cercare il nesso che sta dietro ai fatti, la molla che a volte li rende grandiosi, teneri o terribili, anarchici nel loro svincolarsi dal tempo materiale.

Apro a caso il libro e trovo, ad esempio, questa poesia su Galileo. Il grande scienziato era ormai cieco, eppure indagava sulla cifra a lui più vicina, continuamente negata e restituita dalla mancanza di senso: il candore lunare. Si intitola così, Del candore lunare, uno dei suoi ultimi trattati. La luce della luna come estensione fraterna della cecità, la cecità come una forma di remissione che tutto ammanta, come un pianeta della psiche.

Piccole scoperte del genere mi fanno sostituire al termine “poesia” l’espressione “cosa poetica”. Di cose poetiche è pieno il mondo, grazie a Dio. Si tratta di poesia allo stato puro, con un peso specifico dieci volte superiore al terriccio comune, come le pepite o le tremule pagliuzze d’oro che i cercatori del Far-West, setacciando l’acqua dei fiumi, riuscivano a trattenere nel piatto. Una cosa poetica al giorno toglie il Poeta con la P maiuscola di torno! Non c’è più differenza tra poeta e lettore, tra intellettuale e società, perché le cose poetiche possiamo coglierle tutti, con un po’ di sensibilità, di attenzione e di leggerezza. Questo è il primo passo verso la Poesia con la P maiuscola, molto più rispettabile di tanti suoi presunti Portavoce.

A un certo punto del mio percorso, dopo L’infinito quotidiano, con Naja tripudians, ho annotato in una specie di diario, un po’ vertiginoso, un po’ screanzato, certe sequenze della vita militare, prese a simbolo delle inutili forze repressive. Questo colpì Angelo Maria Ripellino, che mi fece l’introduzione. Senza avermi mai conosciuto. Ci eravamo solo sentiti al telefono. Un’altra delle cose poetiche di cui parlavo prima, che possono capitare nella vita.

Dopo la nascita di mio figlio Mattia, uscì Po e Sia, un libro sul senso del divenire, perché un figlio seguito dai primi passi, questo entrare in un circuito dove il padre e la madre sono dei predecessori nell’arco di una stagione di poco precedente, rientra in un’orbita che porta lontano, anche se rimane sempre la stessa.

L’esperienza, il grande vantaggio, il grande privilegio che dà la maturità, il passare degli anni ti fanno capire meglio cosa significhi la storia. Perché la tua storia diventa un metro di misura, infinitesimo, certo, ma ti consente di capire i destini altrui, le cose che sono o che non sono state, le epoche, i percorsi. Così mi è venuta voglia di raccontare, in Libro di storia e di grilli, questo aspetto. Lì c’è la poesia su Antonio e Cleopatra, che annuncia, in un verso, il rovesciamento dei piani e dei destini, assecondata l’indole mimetica dell’intelletto. Quel verso dice: “e dalle ombre loro nacque Shakespeare”.

Ma tutto questo è possibile se si parte da un’infanzia che io preferisco attribuire alle cose, dall’infanzia delle cose, per risalire all’età di oggi, all’età della storia.

Dopo di che, è stata la volta di Libro di scienza e di nani. Ci sono elementi come l’azoto o l’ossigeno, dei quali di solito non si impensieriscono i poeti, e che tuttavia nascondono un riscontro metafisico, affascinante e totalmente a nostra misura. Cosa c’è dietro al fatto, per esempio, che ogni tanto, quando ce lo dice il medico, dobbiamo controllarci, fare l’esame del sangue e vedere se c’è tutto il ferro necessario, altrimenti sono guai. Il ferro, il calcio, l’idrogeno: tutte cose che sono nel nostro corpo e che ci fanno vivere. Fermiamoci al ferro. È un residuato di quella stella primordiale che esplodendo diede origine all’universo. Evidentemente c’era ferro da vendere su quella stella. Lo confermano gli scienziati, il ferro che abbiamo nel corpo fa parte di una storia clamorosa, dove può starci benissimo anche Dio, che dispone di punti di forza clamorosi, mentre la nostra crocifissione è fatta di questi chiodi che ci navigano dentro, che solcano il nostro sangue come scialuppe. E l’idrogeno che c’è nell’acqua, che c’è nel nostro corpo, è frutto della stessa esplosione, è lo champagne che abbiamo dentro, quando ci innamoriamo. Da una pozza d’acqua e da un fulmine a ciel sereno, da un po’ di polvere e sporcizia che era rimasta in mezzo all’acqua, nacque la vita. Come è possibile, dunque, non interessarsi alla scienza? Anche un letterato ne ha bisogno.

Il prossimo libro concluderà la trilogia. Si intitola Libro di sillabe. La mia avventura “all’indietro” pretende un sillabario, si ferma alle parole che alzano “la voce in quartieri e quaderni,/patto segreto per non passare alle mani”.

 Il metodo, la volontà, la tenacia e il bisogno di farti compagnia ti portano a fare una sorta di raccolta, di censimento. Non ti fermi solo alle cose che sai, che ti hanno colpito o che ti hanno insegnato. Ecco perché i miei libri, senza volerlo, sono pieni di cose misteriose. Addomesticate, però, portate a casa per guardarle meglio, spiegate magari con la stessa fantasia che usa il mistero.  Anche la diversa durata della vita fra le varie specie animali mi ha sempre dato un senso di relatività. Per esempio, il gabbiano vive in media dieci anni e io, sulla spiaggia di Riccione, la città in cui sono cresciuto, vedendo i gabbiani d’estate, pensavo fossero sempre gli stessi. Quando il mio bagnino mi ha detto che vivono in media dieci anni, ho pensato che, se l’avessi saputo da bambino, questa notizia mi avrebbe dato una grande tristezza. Avrei subito pensato “Se nascevo gabbiano… a quest’ora ero morto”. Ho anche intitolato un libro per ragazzi, più o meno così.

Vivere solo dieci anni vuol dire non avere la possibilità di calcolare, come facciamo noi adulti, quante volte il bambino di un tempo ti è rimasto dentro. Le drosofile, invece, quegli insetti che volano intorno ai fumi del vino, vivono e muoiono nello spazio di pochi giorni e per questo gli scienziati le osservano per i loro studi sulla genetica. In poco tempo vedono tutte le modifiche possibili, nel vortice delle generazioni delle drosofile.

E il carbone, che è parente prossimo del diamante? Se c’era un altro po’ di pressione di tutta l’enormità terrestre e qualche combinazione, qualche venatura in più, c’era verso che il carbone diventasse diamante. Così come la torba.

E qui mi riallaccio al grande poeta irlandese Seamus Heaney, che di torba riempie le sue metafore. La torba è un passaggio intermedio. La terra si gonfia di erba pressata, in questo lento scorrere, diventerà carbone. In questa fase intermedia, la segano e ci fanno i tetti e le pareti delle case. C’è un’infinità di cose, se ci troviamo d’accordo sul termine “cose”, che sono poetiche senza bisogno di vivere dentro una poesia. Vivono della sensibilità della gente, vivono se c’è un’anima che se ne accorge e poi, magari, le racconta agli altri.

Delegare tutto ai Poeti con la P maiuscola dovrebbe fare inorridire le persone che non amano la retorica. Non c’è niente con la maiuscola. E questo ci lascia liberi di confrontarci con le piccole follie, con le dilatazioni e le sorprese d’ogni giorno.