LA RICCHEZZA DELLA VARIETÀ

Qualifiche dell'autore: 
avvocato, urbanista

Nel libro di Sergio Mattia, L’ambiente, la città, i valori, io sono una sorta di grillo parlante, perché pongo in rilievo aspetti derivanti dal mio mestiere di urbanista, che vede sempre come le cose funzionano in realtà e non in teoria.

Ho incominciato a capire a pieno il valore della città quando me ne sono allontanato. In occasione della nascita di mio figlio ci trasferimmo in un magnifico quartiere residenziale a dodici chilometri da Bologna, con tutti i servizi per una vita “moderna” (piscina, tennis, club house, ecc.). Da quel momento, iniziò la mia passione per la città, tanto che dopo due anni ritornammo precipitosamente in centro. Andavo infatti tutti i giorni a Bologna, dove ho lo studio ed anche la domenica venivo in città per passeggiare sotto i portici.

Quindi, proprio quando non ci vivevo, ho potuto capire che cos’è la città. La città è la ricchezza della varietà e dell’imprevisto, delle multiformi relazioni umane e degli incontri inaspettati, tutte cose che, se non vi è densità di abitanti, non accadono. Dalla città nasce anche la libertà. Vivere in un villaggio residenziale è quanto di meno libero e di più monotono ci sia, si è sorvegliati, si è con persone simili tra loro e si frequentano sempre le stesse persone.

“L’aria della città rende liberi”, dice un adagio tedesco medievale. Dunque, la scelta di tornare un cittadino è stata definitiva e l’aver capito il valore della città mi ha condotto a scrivere un libro sui falsi miti antiurbani dell’urbanistica, a partire dal discorso antiurbano che incomincia con Lutero, prosegue con Marx, che glorifica il contadino e parla male della borghesia, per finire alla nostra legge urbanistica del 1942, che all’articolo 1 afferma che “la presente legge” deve combattere la tendenza all’urbanesimo e incoraggiare il disurbanamento. Quindi, era già volontà dello stato fascista quella di perseguire la lotta alla città perché fatta di persone libere e non ben controllabili. Nel libro, ho analizzato gli altri simili miti totalitari che sono venuti dopo quello della campagna. Nel mito del verde vi è stata l’influenza della cultura svedese: facciamo tante villette col verde, ma in questo modo la città si espande e cresce l’inquinamento, perché la distanza costringe a usare sempre l’automobile. Se gli abitanti dei centri storici si spostassero in automobile come tutti gli altri, vi sarebbe un incremento intollerabile dell’inquinamento.

Tra gli altri miti, è sorto quello del villaggio felice, che è un’eredità americana, l’unità di vicinato. L’abbiamo vista nel villaggio Peep questa unità. Nel Peep la gente soffre di depressione psichica, come mi è stato confessato. Sono stato invitato a intervenire a un convegno di Cooperative che costruivano nel Peep, perché chiedessi al Comune di smettere di progettare i Peep con gli scatoloni prefabbricati e lasciasse che le Cooperative costruissero con progetti singoli e quindi con edifici via via diversi, senza monotona uniformità com’è stato fino alla legge 865 del 1971 di Bologna.

Altra cosa incredibile è il mito della lotta alla rendita. Nel piano regolatore di Bologna degli anni settanta c’era il principio del 33%, cioè non si potevano costruire garage oltre la detta percentuale rispetto alla superficie del nuovo fabbricato. In questo modo non si poteva esaudire la domanda proveniente dai vicini edifici esistenti, privi di garage. Tale assurdo limite era dettato dal fine di limitare la rendita, visto che i garage erano molto richiesti e quindi la loro costruzione rendeva molto.

Di mito in mito, siamo arrivati allo sviluppo sostenibile che, secondo me, e qui l’aggettivo è politicamente non corretto, è il più tragico dei miti. L’inquinamento acustico e l’inquinamento atmosferico vanno di certo combattuti, ma da questi problemi è derivata un’ossessione mortifera. L’ideologia dello sviluppo sostenibile dice: l’uomo è mortifero, l’uomo è cattivo, va abolito l’uomo perché distrugge la natura incontaminata, che è certamente migliore. Da qui la prospettata esigenza della diminuzione della popolazione.

D’altro canto, vi sono i paesi sottosviluppati che ovviamente inquinano poco perché consumano poco, ma il paradosso è che bisogna elevare il loro tenore di vita e quindi farli inquinare di più. Quello che io colgo come linea di fondo è abbastanza preoccupante: un sentimento di morte e un sentimento di perdita del bello, perché lo sviluppo sostenibile ha portato con sé anche una grande conseguenza, la preservazione assoluta della natura, più meritevole delle esigenze dell’uomo. Con l’estensione totale del controllo paesaggistico, che cosa accade? Accade che le magnifiche città che abbiamo costruito in passato, Venezia in palude, Torino, Roma e Firenze sui fiumi, oggi non si sarebbero potute costruire. Oggi, per costruire un edificio urbano (l’effetto città) occorre tenersi almeno 150 metri lontani da un fiume. Quindi, addio bellezza. La bellezza di una città “densa” che dà luogo al classico lungofiume è una cosa incredibile.

Di recente sono stato a Lubiana, una piccola città della Slovenia, attraversata da un piccolo magnifico fiume, che è costeggiato da un percorso pedonale, con ponti ed animati caffè. Tutte queste cose non potremo più averle, non potremo più avere neanche San Gimignano o Orvieto, come Genova e Trieste, perché sono tutte costruite in collina, e la collina va salvaguardata per il suo valore paesaggistico. L’estremizzazione è diventata qualcosa di assolutamente tragico. È vero che in passato ci sono state, specialmente al Sud, costruzioni abnormi e degradanti lungo la riva, specie del mare, che hanno deturpato il paesaggio. Ma non si può diventare estremisti, sarebbe come chi che prendesse una medicina triplicandone la dose per guarire prima (si muore).

Ho citato in un convegno il Comune di San Lazzaro di Savena perché nella relazione di un piano regolatore di alcuni anni fa si affermava: “Peccato che non siamo riusciti ad avere 1000 mq di verde per abitante, siamo a 934”.

C’è questa questione per cui devo dire: “Io sono più bravo di te”, ma nel senso di proibire, nel senso quindi del nulla. Mi pare evidente che tutto ciò costituisca una tragica rincorsa, il cui motore non è alimentato tanto dal desiderio di far nascere qualcosa, quanto da una specie di sottile desiderio di morte.