IL CORPO IN GLORIA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, brainworker, presidente dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo numero pubblica intellettuali, imprenditori, artisti, psicanalisti, medici che non espongono un sapere o una conoscenza sul corpo e sulla scena, che non ne svelano, secondo la modalità occidentale, segreti e pettegolezzi. La loro testimonianza, semmai, offre un contributo per dissipare i luoghi comuni, le risposte pronte, le facili certezze.
Cosa c’e infatti nel discorso occidentale di più indagato del corpo e di più risaputo della scena? Le scienze hanno fatto del corpo il loro oggetto, osservabile fino all’autopsia,  scrivibile fino alla chirurgia plastica, leggibile fino alla genetica; le arti hanno localizzato, rappresentato, reso spettacolare la scena. Primato del visibile contro la parola, per relegare il corpo a origine delle cose e la scena a loro spettacolo, per un corpo procreativo e una scena finale. Ma soprattutto perché tutto torni, si unifichi, si uniformi, si sistemi armonicamente.
Eppure già l’Ecclesiaste scriveva: “Il vento non sai da dove venga e dove vada”. Da dove vengono le cose? Dove vanno? Quest’andare e venire, venire senza origine e andare senza fine che c’è nella parola, porta alla combinazione di corpo e scena, cioè alla qualità della cose. Le cose vengono dal corpo, che non è la prigione dell’anima, come credeva Platone, ma l’apertura originaria, ciò da cui procedono le cose. Nessuna corporazione, che toglie il corpo per socializzarlo, per farlo Altro cui assoggettarsi. E se Platone parla del corpo come carro (in greco arma) dell’anima, di questo carro importano snodi e giunture, fessure e collegamenti, dunque l’intreccio degli elementi: corpo non come contenitore, allora, ma come giuntura originaria delle cose, legame originario. Non intersoggettivo né materno, il corpo introduce la logica delle relazioni, è relazione esso stesso, non ciò con cui entrare in relazione o ciò che consente la relazione con il mondo. Altrimenti la relazione originaria sarebbe quella tra madre e bambino, il primo corpo a corpo che fonderebbe tutte le successive relazioni intersoggettive. Nessun corpo materno, nessun corpo che venga da madre, salvo il corpo procreato, obiettivato, rappresentato, il corpo dei figli d’Eva che il corpo di Cristo doveva riscattare.
Invece il mito del corpo di Cristo, il Corpus Domini, porta a una gloria senza riscatto, e apre alla questione: come avviene che non ci sia più corpo sacrificale? Come il corpo entra in una scena non malata, non mortale, non criminologica? Infatti la scena madre nel discorso occidentale è il patibolo. Con essa la morte si fa sociale, per una gloria da capro espiatorio, un riscatto che conferma che tutti devono riscattarsi. I media, fino allo spettacolo “Il grande fratello”, devono dimostrare che la gloria è l’accesso a questa scena, in cui l’eroe deve confermare la condizione umana, offrendone il meglio quale economia del peggio. Cosa non si deve fare per essere in scena, per rappresentarsi spettacolare, pronto a tutto e a tutti, nell’amplesso mediatico, cioè totale?
Eppure, che la scena, e dunque la gloria, non siano spettacolari né sacrificali, l’aveva già sottolineato Sigmund Freud, che aveva parlato della psiche come scena inconscia, altra scena (Ein andere Schauplatz) e, soprattutto, scena originaria (die Urszene): scena irrappresentabile, verso cui le cose vanno, non perché vi ritornino (sarebbe la scena dell’origine), ma perché senza questa scena non c’è qualità, valore, cifra. La scena nel teatro greco non era il luogo dove si svolgeva la tragedia, ma la tenda, lo sfondo. Le cose avvengono davanti alla scena, nel presupposto che tutto sia come si vede, o dietro, nel presupposto che importi quel che è nascosto? Nel primo caso la maschera deve essere indossata, per coprire, nel secondo deve essere tolta, per svelare: ecco le modalità criminologiche a cui la famiglia, l’arte, l’impresa, la comunicazione dovrebbero attenersi, fino alla sceneggiata, ora comica ora tragica. Sta qui la parata sociale, con i suoi ruoli, il suo convenzionalismo, la sua copertura. La tenda non copre né mostra, è separazione, cioè, dal latino sine parare, è senza ostentazione o dimostrazione, ma anche senza protezione o impedimento. Insomma la scena non ammette né parata né nascondimento.
La cifrematica indica come nella parola il corpo è arma, legame, giuntura, e la scena è skené, tenda, slegame, separazione. Le cose procedono dal due e vanno in direzione della qualità, non dell’unificazione, come voleva la fisica del ventesimo secolo, trascurando la lezione di Heisenberg e del suo principio d’indeterminazione, cui allude in questo numero Fernando Arrabal. Tra corpo e scena nessuna armonia, nessuna fusione, nessuna corrispondenza, come vorrebbe la psicosomatica per proporre lo psichico come sistema, a paradigma e guida della riduzione della famiglia, dell’impresa, della vita stessa a sistema sociale. Ma come concetto limite tra il somatico e lo psichico, scrive Freud, c’è la pulsione, che Armando Verdiglione definisce duale, per sottolineare che procede dal due originario e si rivolge alla qualità. Lungo questo rivolgersi, questa rivoluzione della parola, si dissolve l’idea di sistema, in cui il due dovrebbe procedere dall’unità e tornare all’unità, e sorgono i dispositivi nuovi per l’impresa, l’industria, la città. Con la direzione del brainworker, essi procedono dall’apertura e, per un itinerario di arte e cultura, giungono alla riuscita, come indicano le testimonianze degli imprenditori interpellati in queste pagine.