LA SOVRANITÀ

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, brainworker, presidente dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Parlare di politica è il modo con cui il discorso occidentale ha da sempre tentato di rappresentare la politica come luogo della parola, per regolare la relazione e gestire  la differenza. Già con Platone, lo scopo della politica è di assicurare la riproduzione della specie, come scrive Carlo Sini nel suo libro La libertà, la finanza, la comunicazione (Spirali), a partire dall’idea della morte. Per questo essa può qualificarsi come politica dell’incesto, perché volta a regolamentare il fare, la produzione, la sessualità con i criteri del proibito e del prescritto, dell’ammesso e del rifiutato, dell’amico e del nemico. Alternative da sancire e da rappresentare attraverso l’interrogazione che fonda la risposta, come per Platone, o con il conflitto che porti alla sintesi come in Hegel; l’importante è che tutti sappiano cosa sia la politica: lo strumento massimo della padronanza, della sovranità propria o dell’Altro.
Sorge così il politicamente corretto, ciò che si attiene a questo criterio di sovranità limitata e limitante, perché sottoposta a un sistema di relazioni, cioè di convenzioni e di obblighi sociali, che prende il posto dei concetti comunisti di ideologia e di egemonia, ma è ancor più intollerante, come nota Vladimir Bukovskij in questo numero. A lui fanno eco Giancarlo Lehner, quando evidenzia l’uso politico, cioè ideologico, della giustizia in Italia, e Armando Valladares, che testimonia come a Cuba il principio della politica sia il principio della schiavitù. Come non notare che, lungo il discorso occidentale, i regimi sorti per liberare dalla schiavitù la producono?
 Il discorso sulla politica, il politicamente corretto, crede nell’alternativa bene/male, piega la parola all’economia del male; per questo fonda il luogo comune contro il mercato definendolo iniquo, snobba ogni battaglia culturale chiamandola di parte, pensa che la proprietà e l’industria siano ormai obsolete. Come stupirsi (e molti se ne rallegrano) se fondamentalismo, terrorismo e razzismo sono antiamericani e antisemiti, contro l’Atlantico e il Mediterraneo? Sono contro la globalizzazione e la particolarità, il consumo e il superfluo, la scienza e la finanza, l’infigurabile e l’immagine: vedono in essi la prova della decadenza, dunque, gnosticamente, della caduta nel male, nella corruzione, sempre da purificare, da rigenerare, da riciclare. Ben altra logica occorre per affrontare le sfide che il terzo millennio ci pone, come quella dell’acqua, come documentano in questo numero gli articoli di Riccardo Petrella e dei presidenti delle ex-municipalizzate che se ne occupano ciascun giorno, o quella dell’aria, che non si riduce alla lotta contro l’inquinamento, come mostrano gl’imprenditori vivaisti ospitati in questo numero. E occorre altro diritto, ci ricorda il giudice Francesco Amato, da quello legato alla sorda vendetta, occorre un diritto che, secondo Giambattista Vico, si costituisca nella poesia, cioè nel fare in cui esistono gli umani, nella sua catacresi, non nella sua limitazione.
Il discorso sulla politica tenta invece di servirsi della conoscenza e delle sue teorie per rigenerarsi e riproporsi come più perfetta tecnica di dominio. Ma questa conoscenza ha una funzione ideologica, come nota qui Felice Accame, come facoltà di gestire le cose attraverso la loro denotazione, attraverso l’idealismo o il realismo pragmatico, la credenza che l’idea duplichi o organizzi la realtà. Questa conoscenza ideologica resta conoscenza del male di cui fare economia, perché diviene male tutto ciò che ai suoi schemi, alle sue convenzioni, appunto, non si conforma, e dunque deve essere espunto, escluso, eliminato, ovvero reinglobato. La conoscenza sostituisce alla possessione dell’artista la padronanza del filosofo.
In questo numero la nostra rivista ribadisce l’esigenza avanzata dalla cifrematica di una politica senza più padronanza, cioè esclusione, espunzione, eliminazione del terzo, cioè sua gestione. Perché questo avvenga occorre che cessino le procedure discorsive di rappresentazione del terzo, per esempio il principio di identità e di non contraddizione, che stanno alla base del principio del terzo escluso, il principio della morte. Occorre che le cose entrino nella parola anziché restare nel discorso, procedano dal due, non dall’alternativa o dal conflitto che lo espungono, occorre che il due non sia riportato, maoisticamente, all’unità, che esclude l’Altro che non rientri in una sintesi superiore, cioè in una nuova unità.
Dal due, dall’apertura procede una sovranità che non abbisogna di schiavitù, perché non si nutre dell’alternativa e del conflitto, per esempio servo-padrone, così necessari al discorso occidentale. Sovranità intellettuale, che non è data da dio né dal contratto sociale,  perché le cose non hanno bisogno di correttezza, convenzioni, obblighi sociali. Questa sovranità, espunta dal discorso sulla politica, inaugura una politica della parola, una politica senza discorso, cioè senza riferimento al legame sociale, all’incesto, all’amministrazione degli umani; una politica dell’ascolto, come sottolinea Armando Verdiglione nel suo intervento. Per questo è politica dell’ospite, che non si può rappresentare, dunque ignoto, inconoscibile.  Politica di vita perché non ha bisogno della morte come riferimento, politica che proceda dall’impresa, dalla finanza e dalla comunicazione, senza pianificarle, delimitarle, contenerle.