LA LIBERTÀ, IL DIRITTO, LA POESIA

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psicanalista, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Il filosofo Platone dedica il Libro X della Repubblica alla poesia come arte della mimesi, al pari della pittura, e mette in guardia Glaucone dai pericoli e dalle insidie che l’imitazione rappresenta per il bene della repubblica. Innanzi tutto, dice, essa ci fa credere per vere cose che sono solo apparenze; in secondo luogo, fa passare per esperto chi fabbrica tali apparenze – il pittore o il poeta –, mentre il vero competente è soltanto chi fabbrica gli oggetti reali di tali apparenze sotto la guida di chi li usa; in terzo luogo, il poeta, dando risalto alle passioni, incoraggia atteggiamenti “femminei”, che nessun uomo valoroso ammetterebbe nella realtà, in cui invece deve prevalere la parte razionale dell’anima. Non è difficile intuire le conclusioni di Platone allo scopo di assicurare il bene della città: solo se potrà avere una qualche utilità, la poesia sarà ammessa nella repubblica – egli dice –, e non è un caso che paragoni per contrasto la poesia alla medicina, concludendo che non si è mai visto qualcuno che sia guarito grazie alla poesia. Per quanto il poeta faccia credere di essere competente anche nella medicina, per avere giovamento il malato dovrà affidarsi ai discepoli di Esculapio. Leggendo il Libro X della Repubblica di Platone, forse s’intende l’ultima strofa del romanzo in versi di Francesco Amato, Appena ieri (Spirali, 2003): “Soltanto domani/ l’ineludibile appuntamento/ e saprò/ saprò finalmente la Verità Assoluta./ Ma nessun gallo andrà sacrificato/ allo sconosciuto Esculapio”.
Dico forse s’intende, perché in realtà questa strofa rilascia un enigma che rimane indissolubile. Ma una cosa è certa, che al protagonista di questo splendido libro con cui l’autore trova uno stile nuovissimo, il romanzo in versi, importa che non ci sia più vittima sacrificale: il debito verso l’idealismo filosofico, che da Platone a Hegel nega il diritto, negando il caso particolare e specifico e crogiolandosi nelle dicotomie natura-cultura, passione-ragione, poesia-filosofia, con Francesco Amato non è più da pagare. Il suo viaggio intellettuale inventa quella tradizione del diritto in cui la poesia e la ragione non sono antitetiche, la tradizione del Mediterraneo, senza i luoghi comuni che hanno nutrito il discorso occidentale imperante ovunque si sia tentata una padronanza sugli uomini, sulle donne, sulla città, sulla repubblica.
Che l’opera di Francesco Amato sia completamente esente dal fantasma di padronanza è chiarissimo fin dalla prima parola: “Tempo”. Che cosa c’è infatti per gli umani di più impadroneggiabile del tempo, addirittura di più irrappresentabile? E con il tempo, più che con ogni altra cosa, si confronta da sempre il diritto: la scadenza, l’urgenza, l’occorrenza che intervengono nel diritto sottolineano il tempo, sottolineano che il tempo non è gestibile e in questo il diritto si può accostare alla poesia. Impossibile per entrambi eludere il contingente e rifarsi all’idealità, fuggire dalle parole o dalle cose che potrebbero portare il male e cercare quelle che vanno verso il bene; conta invece per il diritto e la poesia la combinazione che è il due, bene/male senza alternativa esclusiva. In entrambi gli ambiti constatiamo che non serve attendere le circostanze ideali per fare. Il fare non è sottoponibile alla logica predicativa, ossia al principio di non contraddizione, d’identità e del terzo escluso, principi aristotelici. Ma evidentemente Aristotele, allievo di Platone, ha sistematizzato ciò che in fondo questi aveva ampiamente enunciato mettendo al bando la parola libera, la poesia, l’arte della mimesi, perché troppo pericolosa per il bene della città. Città in cui ognuno deve svolgere una sola attività, possibilmente quella ereditata dal padre, città in cui le donne e gli schiavi sono utensili – della riproduzione le une e della produzione gli altri –, città in cui evidentemente la padronanza è assoluta e non ammette la varietà e la differenza.
Platone, filosofo di stato, suggerisce persino la nobile menzogna che il principe deve raccontare ai sudditi: la teoria della predestinazione. Il figlio del calzolaio mai potrà divenire principe. Eppure, se i testi di Platone fossero letti, mai potrebbero essere applicati nei più disparati ambiti della vita, come invece accade quando la libertà, il diritto e la poesia sono negati a vantaggio dell’idealità pura. L’idealità pura non c’era soltanto con Platone, ma c’è ogni volta che, come si evince dalla lezione del libro di Amato, gli umani vengono giudicati per quello che sono o non sono, per quello che hanno o non hanno. A questo proposito, a pag. 40 del libro leggiamo: “Una coppia viveva/ nella casa attigua alla nostra:/ un impiegatuccio di ministero,/ una donna dimessa./ Tra noi, se per le scale/ ci incrociavamo,/ soltanto uno scambio di convenevoli./ Avevano un unico figlio/ arruolatosi volontario/ in una formazione militare fascista./ La palla di pezza/ da me calciata/ rotolò sulla via./ Comparve lui che la stoppò col piede/ verso di me tirandola./ Iniziammo a giocare./ Buffo gioco/ fra un ragazzino e un uomo/ in lugubre divisa/ armato di pistola,/ una bomba a mano/ agganciata alla giubba./ Aveva un volto leale,/ non era antipatico”. Gli umani esistono nel fare, esistono in quanto fanno, non in quanto sono o in quanto hanno. Il diritto che pretendesse di applicare una pena pari al danno, anziché un giusto risarcimento, come nota Nietzsche nella Genealogia della morale, servirebbe a legalizzare l’omicidio, come in effetti accade negli stati in cui ancora vige la pena di morte. Un diritto, per dir così, dove l’istituto della vendetta e della pena discendono dall’istituto del ricatto e del riscatto, che a sua volta discende dall’istituto della colpa. Diritto, se ancora così possiamo chiamarlo, in cui a ognuno è prescritta l’identità, essere identico a sé, diritto stabilito per filiazione genealogica, perciò materno, cioè senza la madre e il suo mito. Diritto di regime: “Sei fascista? Allora sei cattivo. A morte i fascisti”; oppure, sotto altri cieli, come nota Amato: “Sei comunista? Allora sei pericoloso. A morte i comunisti”.
È bellissimo il modo in cui il protagonista del libro si fa beffa del principio d’identità. A pag. 45, racconta: “La supplente di italiano/ era giovane/ dagli occhi chiari,/ una normanna./ Io, arabo, l’amavo/ in silenzio/ o l’ammiravo?”; mentre a pag. 49: “Di sera/ incontro nella passeggiata a mare/ la compagna di scuola,/ contegnosa e altera, occhi di tulipano,/ bruna come un’araba,/ che io, normanno, ho in simpatia”. Arabo o normanno? Straordinario il modo in cui Francesco Amato ci racconta che il principio d’identità non c’è più: l’uno identico a sé è la base dell’infanticidio. Essere fascisti, essere comunisti, essere belli, essere brutti, essere bravi, essere cattivi, quanti crimini non si compiono sulla base di questo principio che assegna un primato all’essere? Quale razzismo non si fonda sul principio di elezione da cui deriva il principio di selezione? E quale diritto può sorgere se l’Altro è rappresentato nel nemico, nel diverso, nello straniero?
Il diritto e la poesia con cui si costituisce il caso di qualità, anziché il caso patologico o criminologico, sono proprio il diritto e la poesia dell’Altro irrappresentabile, ovvero il diritto e la poesia in cui la parola e il fare non sono criminalizzabili o colpevolizzabili, non sono prerogativa di chi è o di chi ha. La parola sfugge agli umani. Questo è innegabile. Ma di questo c’è chi, come Francesco Amato, non ne fa un guaio, né un male, né un peccato. Egli, come Giambattista Vico, coglie la poesia nella sua accezione antica di poiesis, che in greco indica tanto la poesia quanto il fare. Come il fare sia nella parola, nel dire, nel parlare, nel narrare, nel raccontare, e non nel passaggio all’azione, ce lo insegna lo stesso Vico, per il quale ciascuna parola è una picciol favoletta. Per Amato, come per Vico, non si tratta della “storia/ di famosi personaggi”(pag. 1), della Storia con la maiuscola ma, attraverso picciol favolette, parole che si combinano nella poesia, si tratta di una narrazione incessante in cui il detto è travolto dal dire e il fatto è travolto dal fare. La poiesis è la parola che agisce. Questa è la lezione di Francesco Amato nella sua invenzione straordinaria sul filo della verità tra il diritto e la poesia, verità che non è una né molteplice, ma è effetto del tempo e del fare, come la definisce Armando Verdiglione. Con questa verità, ciascuno ha la chance, parlando, facendo, narrando, scrivendo, di trovare i casi della vita, le Historie di Vico e del diritto, e di divenire caso di qualità, come il caso di qualità di cui possiamo leggere in questo splendido libro di Francesco Amato, Appena ieri.