IL MONUMENTO DEVE VIVERE

Qualifiche dell'autore: 
presidente dell'ANCE (Associazione Costruttori Edili della provincia di Modena)

Dal libro di Lorenzo Jurina emergono tanti aspetti interessanti, ma vorrei partire da quello evocato dallo stesso titolo, Vivere il monumento. Conservazione e novità, che ci ricorda che il monumento deve vivere e deve essere fruito dalla collettività. Potrà sembrare un discorso di parte – rappresentando l’Associazione dei Costruttori –, ma è inevitabile che il monumento, per vivere, debba rendere al proprietario, che non deve essere necessariamente un privato, anzi, in molte occasioni, si tratta di un ente pubblico. Ma anche in questo caso il monumento deve rendere, nel senso che è la collettività stessa (rappresentata dall’ente pubblico) a esigere di fruire e beneficiare del monumento. Non bisogna nascondersi dietro la cronica mancanza di disponibilità economiche del pubblico, poiché esistono strumenti di sinergia pubblico-privato come il project financing, dove con un poco di coraggio sulle destinazioni d’uso e sulla regolamentazione delle fruizioni dei monumenti, se ne potrebbero portare molti a nuova vita.

Per quanto riguarda il recupero tecnico del monumento, Jurina esamina in maniera molto interessante e stimolante l’aspetto del recupero statico e quello dell’adeguamento impiantistico alla normativa vigente, molto complesso, soprattutto se si pensa che occorre intervenire con canalizzazioni e materiali molto invasivi se non sono gestiti con la massima accortezza. Ma, lo ricordiamo, lo scopo dell’intervento di restauro sta soprattutto nel rendere vivo il monumento, nel far sì che venga fruito e usato. Il libro di Jurina è molto chiaro in proposito: un monumento non utilizzato andrà, nel tempo, inevitabilmente in rovina. Il recupero va inteso come statico e impiantistico ma, soprattutto, come funzionale. L’esperienza diretta nel nostro territorio porta indubbiamente a pensare che occorre coraggio da parte dei committenti e dei controllori, le soprintendenze in genere, ma anche i comuni, poiché in assenza di questo e di chiari obbiettivi prevarrà sempre la cultura del non fare, quindi dell’abbandono e del deterioramento. È sempre difficile mettere in pratica il restauro come attività che deve valorizzare quell’unicum – come lo chiama l’autore –, che rappresenta ciascun monumento, perché resta difficile gestire il rapporto committente, controllore, progettista ed esecutore. Noi costruttori abbiamo difficoltà a introdurre soluzioni innovative e a trovare dirigenti pubblici che abbiano il coraggio di sposarle, prendendo decisioni al momento opportuno e con la tempistica opportuna. A questo proposito, vorrei ricordare l’importanza dei tempi di esecuzione di un restauro, dal momento in cui nasce l’esigenza del recupero a quello in cui questo viene effettivamente attuato, perché la dilatazione dei tempi porta inevitabilmente a una dilatazione dei problemi e dei costi, che mette in difficoltà il committente, senza portare quei vantaggi che il recupero del monumento deve portare per meritare un investimento.

Allo stesso modo, dobbiamo anche considerare che la destinazione d’uso del monumento è un problema che attanaglia tutte le città, quelle italiane in particolare, dove il centro storico è tutto un monumento. La difficoltà di rapporto tra i soggetti operanti sui singoli monumenti e la mancanza di coraggio da parte di molti soggetti hanno provocato in questi ultimi trent’anni un dispendio enorme del patrimonio dei nostri centri storici, con conseguente trasferimento delle funzioni vitali della città verso l’esterno e disagio urbanistico generale in termini di mobilità, di traffico e di costi per la creazione di nuove infrastrutture che ricadono sulla collettività. Non dimentichiamo che più la città si allarga e più è difficile gestirla.

Quindi, occorre un’inversione di tendenza, che in parte ha già cominciato a manifestarsi, con iniziative come quelle intraprese con coraggio da Lorenzo Jurina nel campo del recupero statico, che però devono essere accompagnate da iniziative altrettanto coraggiose nelle altre nicchie specifiche del restauro, che riescano a riportare il restauro dei monumenti, e in particolare quello dei centri storici, al centro dell’attività pubblica. Questo produrrà un beneficio non soltanto di tipo economico, ma anche culturale e di dignità delle nostre città.

Nel restauro, stiamo rischiando, con le politiche del non fare, di continuare all’infinito ciò che ha provocato grandi danni ai monumenti singoli e alla collettività intera, che non solo non usufruisce di questi monumenti, ma è anche costretta a subire i costi della non unitarietà e della frammentazione degli interventi in mancanza di restauri programmati su scala urbanistica. Noi, come costruttori, possiamo essere collocati ovviamente nella categoria di coloro che fanno, ma a volte anche nella categoria dei committenti. In ciascun caso, facciamo parte di quella catena che deve lavorare con coraggio sul monumento per far sì che non muoia, ma viva. I vantaggi sono evidenti a tal punto che non si deve più soprassedere su questi temi. Occorre che tutte le forze in campo e in gioco si mettano – come scrive anche Jurina – intorno a un tavolo per dare indicazioni e per fornire metodologie. Poi si lasci ai progettisti e a ciascun anello della catena la possibilità di agire con il proprio ingegno. In tal senso, sottolineo che spesso, per evitare rallentamenti e fermi nei lavori – considerando il pericolo d’incrinare delicati rapporti che sempre dobbiamo mantenere tra le soprintendenze e i committenti –, finiamo per proporre e fare soltanto le cose semplici, banali, mediocri. Queste poche note, ma soprattutto il testo di Lorenzo Jurina, dovrebbero fissare, da parte di tutti i soggetti coinvolti nel complesso processo del restauro, una sola parola chiara nella mente: coraggio, coraggio, coraggio, poiché solo con questo si può pensare, oggi, in Italia, di dare una seria svolta in un settore che rischia di rimanere drammaticamente prigioniero del proprio passato.