IL VIAGGIO DELLA CITTÀ

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Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, psicanalista, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Se c’è qualcosa che contribuisce alla vita della città è il viaggio intellettuale proprio e dei propri cittadini. E il viaggio intellettuale è costituito dal percorso culturale e dal cammino artistico. Grazie al libro di Lorenzo Jurina, la città è in viaggio, come ciascuno di noi, come ciascuna cosa, persino i monumenti, gli edifici storici, nonostante si chiamino immobili. Tutt’altro che fermi, i monumenti sono testimonianza materiale di civiltà, “documento di se stessi”, come li definisce l’autore, ma, come per ciascun documento artistico o letterario, è la lettura a farlo vivere, una lettura che procede soprattutto dall’ascolto. Ecco perché, come egli sottolinea a più riprese nel libro, occorre ascoltare i monumenti.
Se volessimo aggiungere un altro sottotitolo al suo libro, potremmo scrivere: Vivere il monumento: la musica della città. Non solo perché ciò a cui s’interessa l’autore è “il senso del ritmo, quel senso dei pieni e dei vuoti”, che avvicina l’architettura alla musica, ma anche perché il suo approccio al restauro è un approccio intellettuale, un approccio che predilige l’ascolto alla visione. Non è facile pensare che gli edifici siano da ascoltare, anziché da vedere. Eppure, questo è ciò che emerge dalla testimonianza del lavoro di Lorenzo Jurina, che non lascia spazio a interventi dettati da pregiudizi ideologici e prese di posizione rigide.
A pagina 45, abbiamo un esempio del suo modo di lavorare: “Anni fa accadeva che si scegliesse acriticamente di coprire con una cappa di cemento armato ogni struttura in muratura fessurata (come dire… mi fido solo dei nuovi materiali, non di quelli vecchi); oggi questo rischio esiste con alcuni prodotti di accostamento fra le nuove strutture e quelle esistenti. Tutto ciò ha avuto a che vedere con il criterio del minimo intervento, e qualche volta significa semplicemente affermare: io intervengo. Non so bene dove mettere le mani e quindi uso un antibiotico a larghissimo spettro, di modo che, qualunque sia la malattia del mio paziente, si riesca, più o meno bene, a farlo restare in vita.
Invece, credo si debba agire come il buon vecchio medico di famiglia, che era in grado, guardando la persona [...] ascoltandola [...] e interrogandola, perché la sua storia è assolutamente importante [di] definire l’intervento minimo da suggerire al proprio paziente, aiutato, ma solo in parte, dagli esami clinici: un intervento mirato, non invasivo, non lesivo, risolutivo, leggero. Questa è una strada che molte persone, fortunatamente, hanno deciso d’imboccare, operando nel mondo del restauro. Esiste, purtroppo, anche la strada opposta, la strada dell’intervento brutale, dell’intervento che si dimentica dell’unicità del monumento e cerca di porre rimedio a qualunque male. È la strada dell’intervento che si dimentica che ciascun elemento è un unicum irripetibile che noi dobbiamo conoscere prima di qualsiasi decisione. Il monumento è testimonianza di se stesso, è documento di se stesso”.
La similitudine dell’ingegnere con il medico di famiglia non è casuale, non solo perché, come dice lo stesso autore all’inizio del libro, il desiderio di fare il medico, oltre che l’architetto, era presente fin dal periodo in cui studiava ingegneria, ma anche perché il medico di famiglia è il vero clinico, il suo intervento, come suggerisce il termine greco klinein, piega, è secondo l’occorrenza e secondo la piega. Non è l’intervento del soggetto che si spezza ma non si piega, né quello del soggetto che si piega alla volontà di bene, di fare bene, per esempio, di fare un buon restauro secondo i canoni dell’epoca, ma l’intervento secondo l’occorrenza, che giunge alla restituzione in qualità. Sta qui l’approccio intellettuale al restauro, non nella restitutio in pristino, restituzione come presunto ritorno a ciò che c’era prima, restituzione secondo il ricordo, ma nella restituzione di ciò che non è mai stato, eppure si scrive come memoria in atto.
Più leggiamo il libro di Lorenzo Jurina e più ci rendiamo conto che il suo approccio al restauro è lo stesso di cui troviamo traccia nella bottega del rinascimento, dove le cose si fanno secondo l’occorrenza: sulla via dell’unicum. Secondo l’occorrenza, cioè non in base a una necessità ontologica, ma attraverso la piega che si trova facendo.
Leggendo i differenti esempi di restauro di cui l’autore narra nel suo libro – il Castello Visconteo di Pavia, il Monastero di San Cristoforo a Lodi, la Villa San Carlo Borromeo a Milano Senago, la Torre San Dalmazio sempre a Pavia, il Palazzo della Ragione a Milano, il Duomo di Cremona, i castelli di Vigevano, Somaglia, Avio Masino e Pavia, tanto per citarne alcuni –, ci accorgiamo che non è casuale il suo uso di cavi e funi, che, più di altri elementi, si prestano al criterio che potremmo definire della piega che segue al tempo. E non a caso, il suo intervento non avviene in base all’idea di fine del tempo: per quanto sia un intervento che porta la sua firma, non è l’intervento definitivo, lascia sempre la possibilità a altri che verranno in seguito di modificare, di aggiungere. E allora il cavo e la fune sono la corda e il filo di Arianna, la corda e il filo del restauro, la corda e il filo della memoria, di cui si costituisce la città, la città del tempo, la città in viaggio, l’unica in cui ciascuno ha la chance di vivere il monumento.
Monumentum: la memoria che si scrive. Vivere il monumento. Conservazione e novità: allora, grazie al libro di Lorenzo Jurina, possiamo constatare che la memoria è sì conservazione, ma anche novità, la novità sta nella memoria che si scrive, nel modo in cui ciascuno nella città vive il monumento, attraverso la sua scrittura.