LA CITTÀ PLANETARIA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

La Russia. La Cina. Cuba. Israele e la Palestina. Il giornalismo li chiama punti caldi, gli economisti ne esaltano la crescita economica, i politici subiscono il ricatto e il fascino delle loro minacce e blandizie. Per il luogo comune sono aree inquietanti, incomprensibili, impasti di ricchezze e di miserie, di rivolte e di repressioni, tira e molla di negazione e concessione dei diritti umani, garbugli inestricabili di modernità e di arcaismi. L’importante è che questi paesi non disturbino, che non siano pericolosi, che non ci traggano in uno scontro di civiltà con la spartizione del pianeta a colpi di guerra energetica, di bomba demografica, di produzione sottocosto, d’intolleranza religiosa. E, come in un film western, spunta la solita domanda: sono buoni o cattivi? O meglio, chi sono i buoni e chi i cattivi? E ognuno si schiera, per o contro, o si chiede se essere per o contro. Con tante domande coscienziose: “E se fossimo noi i cattivi e loro i buoni?”. “E se ci avessero già conquistato?”. “E se…?”.

Nel numero precedente della nostra rivista abbiamo ospitato Viktor Senderovic, che ha denunciato la tirannia di Vladimir Putin sull’informazione e sulla vita stessa in Russia, Harry Wu, che ha descritto gli orrori dei laogai, i campi di concentramento ancora attivi in Cina, Armando Valladares, che ha testimoniato della persecuzione dei detenuti politici a Cuba. Questione di dissidenza, più che di dissenso, in questi autori: il dissenso consacra il consenso, la dissidenza enuncia un’irriducibilità ai luoghi comuni, è la scrittura della particolarità, che non si limita a adeguarsi, anche opponendosi, al discorso del tiranno. La scrittura della dissidenza ha come base la non accettazione intellettuale del conformismo in materia di pensiero, di scrittura, di proposte, dunque in materia di libertà. È scrittura che non si commisura alla politica, non è politica secondo l’accezione ideologica per cui tutto sarebbe politica, anche la cultura e la letteratura, come invece ha recentemente ribadito al salone del libro di Torino Dario Fo.

Questa politica altra, che risalta dal modo della narrazione e della scrittura, interviene ancor più nei testi degli scrittori pubblicati in questo numero. I loro paesi vivono nella realtà del racconto, non nell’immaginazione della mediopolitica, in cui la storia è fatta di tiranni e first lady. Per esempio, a differenza delle opere dei romanzieri russi, il regista e scrittore Victor Erofeev, autore del libro L’enciclopedia dell’anima russa (Spirali), non considera i condottieri, bensì indaga gli infiniti aspetti della vita russa, descritta nelle piazze dorate e nei vicoli fatiscenti, nelle case grondanti di vodka, nelle camere piene di botte e di tenerezze, persino nei cessi. Ne emergono infamie e malinconie, paure e vergogne, opportunismo e disperazione, calcolo e rassegnazione, esaltati da una lingua che si avvale dell’ossimoro, dell’ipotiposi, senza compiacimento dell’infernale. I patrioti russi non l’hanno presa bene, mentre per migliaia di giovani russi questo libro è diventato un cult. La vita di ciascuno, non solo dei russi, si scrive in questo romanzo.

È sorretto da uno sdegno che non incrimina e da un’ira senza risentimento contro qualcuno l’intervento di Marek Halter, messaggero di pace tra Israele e Palestina. “Un’ira profetica”, che indica le ingiustizie del pianeta a coloro che le ignorano, che restano nell’apatia, nell’indifferenza: più che i terroristi o i dittatori, sono loro i veri colpevoli di crimini contro l’umanità. Halter lo dice senza condannare, sarebbe facile e consolatorio: il narratore non si dà pace, non si rassegna alle ingiustizie, non accetta nemmeno la morte, la più grande ingiustizia. La odia, dice Halter, e odiandola non può che odiare tutto ciò che la procura, l’antisemitismo, il razzismo, la dittatura. Un odio intransitivo, che attraversa la scrittura, che non arma la mano. Un modo per elaborare quella che, secondo l’intervento di Luigi De Marchi, è la base di ogni reazione violenta, terroristica o tirannica che sia: l’angoscia di morte, la consapevolezza morale dell’esistenza della morte, che è alla base delle religioni e delle ideologie che le hanno sostituite e che nutre e giustifica i loro integralismi.

Qual è l’apporto che offre l’odio alla scrittura? La scrittura del pianeta ne impedisce la distruzione: senza la scrittura, l’odio agisce. Lo provano le affermazioni dello scrittore Roberto Luque Escalona, che costruisce un romanzo sull’aspirazione di tanti cubani: uccidere Fidel Castro. L’operazione preparata (cioè descritta) meticolosamente fallisce, e il fantasma di assassinio non si realizza, nemmeno nel romanzo. Il disprezzo per Fidel e Raul Castro è grande ma, come Halter, Escalona è messo in questione dalla crudeltà e dalle ingiustizie del popolo, in questo caso cubano, più che da quelle del dittatore. Forse l’attentato al tiranno fallisce perché non è lui il vero bersaglio di Escalona: io sono uno scrittore, non un politico, dice. La sua scrittura civile non mira a abbattere il tiranno, ma a cantare Cuba e la sua degradazione, l’oscillazione tra la lucida intelligenza e il disperato fatalismo della sua gente, come del suo protagonista.

L’intervento di questi scrittori è la miglior testimonianza che non esiste nessuno scontro di civiltà: il secondo rinascimento è per ciascuno, e non ha alternative. Lo attestano con il loro lavoro di scrittura a proposito degli artisti occidentali gli scrittori cinesi Shen Dali e Dong Chun.

Per loro, soltanto lo scambio culturale, non le risoluzioni politiche o le sanzioni economiche, può portare la trasformazione politica in Cina. Spetta però anche all’Europa uscire dalle paure e dai luoghi comuni, acquisendo le suggestioni filosofiche, poetiche e artistiche di una scrittura all’interserzione tra oriente e occidente.