L'APPROCCIO INTELLETTUALE NELL'IMPRESA
Nell’era
della mondializzazione dell’economia e della finanza, all’impresa non basta più
definire la propria mission sul mercato, ma deve trovare una politica in direzione
del valore assoluto, che vada al di là del luogo comune pronto a indicare il
bene come principio e come fine della sua attività. Il discorso politico ha da
sempre utilizzato l’idea di bene come strumento del consenso, mentre l’impresa,
oggi più che mai, deve qualificarsi per il suo progetto e il suo programma
internazionali e per il modo con cui giunge alla qualità. L’impresa non ha
davanti a sé il bene come meta da raggiungere o il male come nemico – ora la
Cina, ora l’India, ora l’Islam – da sconfiggere, bensì l’avvenire. E per questo
la sua politica deve puntare alla riuscita, anziché alla salvezza, e
all’unicità, anziché a una mera difesa dalla concorrenza.
Quali
sono i dispositivi di governo, di amministrazione, di battaglia, che l’impresa
può instaurare, avvalendosi, tra l’altro, delle lezioni di Niccolò Machiavelli
e di Leonardo da Vinci, che hanno gettato le basi per una nuova politica della
qualità in Italia e in Europa, già nel rinascimento? In particolare
Machiavelli, come nota Armando Verdiglione nel suo Niccolò Machiavelli (Spirali), trovava l’esercito
come paradigma di un dispositivo senza paura, dispositivo di riuscita e non di
sopravvivenza. In che modo oggi il capitano non può più essere inteso come chi
ha il compito di “organizzare le masse”, pensate come materia inerte, ma deve
costituire l’esercito come dispositivo della battaglia, essa stessa
intellettuale? E qual è la governance dell’impresa che non si limiti a dare la
medicina a fin di bene, magari per perseguire la soddisfazione dei clienti come
principio?
Negli
ultimi anni, i pregiudizi che gravavano sull’impresa, demonizzando il profitto,
hanno lasciato il posto all’idealizzazione dell’impresa come organizzazione che
deve avere il fine del bene. Il giudizio approssimativo che accomuna le
multinazionali alle piccole e medie imprese sembra avere vinto su molti
imprenditori che hanno fatto proprio un buonismo in grado di metterli al riparo
da un presunto senso di colpa. Ma il valore dell’impresa non sta nella sua
capacità di fare opere di bene, il valore assoluto sta in ciò che ciascuna
impresa fa di specifico e di unico e per questo non può basarsi sulla buona
volontà: occorrono i dispositivi, dispositivi di governo, di comunicazione,
dispositivi pragmatici, commerciali e finanziari, che si avvalgono
dell’approccio intellettuale all’impresa. L’impresa cioè non si fonda sul
conflitto, sulla lingua dei litiganti, ma, procedendo dalla questione aperta,
dall’ironia, trova la lingua diplomatica, quella inventata da Niccolò
Machiavelli, emblema dell’Italia del rinascimento, un’era che ha conquistato il
pianeta, la prima globalizzazione.
Ma,
oggi come allora, soltanto procedendo dalla questione aperta, la
globalizzazione è internazionalismo e intersettorialità, è arte e cultura
dell’impresa, è secondo rinascimento. Se, invece, è all’insegna dell’uniforme,
allora è imperialismo, impero dell’uno che deve omologare tutto, standardizzare
tutto. E possiamo chiederci quanti siano gli imprenditori che, a torto, vedono
nel raggiungimento dello standard un traguardo ideale. L’approccio
intellettuale della nuova politica dell’impresa, invece, esige che ciascun
collaboratore, ciascun cliente, ciascun fornitore non sia standard, ma
costituisca un dispositivo per giungere al caso di qualità, il caso dell’unico.
Lo dimostrano molte società che, in seguito alle fusioni, perdono clienti e
collaboratori.
Se
chiediamo agli imprenditori che intervengono in questo Forum e che vivono una
crescita costante quali siano le difficoltà principali da affrontare, ci
diranno che, oltre agli sforzi per gli investimenti in tecnologia e know-how,
la difficoltà principale sta nella dissoluzione dei pregiudizi che gravano
sull’impresa, che sono anche pregiudizi sul tempo e sul fare. Soltanto
l’approccio intellettuale esula dalle rappresentazioni soggettivistiche che
impediscono la riuscita. Nell’azienda come nella famiglia e nella scuola, la
riuscita è ostacolata dal soggetto e dalle sue presunte facoltà: in
particolare, volere e potere. L’impresa non si fa quando si ha voglia o quando
si può. Nessuna impresa può giungere alla qualità e all’unicità partendo da
queste facoltà, perché l’impresa non è un’organizzazione per il benessere, per
l’essere o per l’avere. Come il tempo, non si lascia prendere in una finalità o
chiudere in uno spazio finito e definito. Im-presa, ciò che non può essere
preso, e né l’imprenditore né i collaboratori possono essere presi, cioè
semplicemente occupati. L’impresa esiste facendo e così il tempo: non c’è
prima, ma si costituisce lungo le cose che si dicono e dicendosi si fanno e
facendosi si scrivono.
Allora,
procedendo dalla questione aperta, la politica dell’impresa è politica
dell’ospite, ma non perché occorra trattare bene l’ospite, rappresentato
nell’immigrato, nello straniero o nel presunto portatore della differenza. La
politica dell’ospite esige che nessuno nell’impresa sia considerato conosciuto
e niente sia dato per scontato. L’approccio intellettuale è questo: la
questione rimane aperta. Così non si pone la domanda: “l’ospite è amico o
nemico?”. Se diviene amico o nemico, non è più ospite, non possiamo più
instaurare dispositivi di riuscita con chi è considerato amico o nemico. Chi
viene da un altro paese o da un’altra esperienza vale a significare la
differenza o occorre che si trovi, come ciascuno di noi, nell’itinerario
intellettuale? Perché qualcuno dovrebbe essere esente dall’intellettualità? Non
a caso, molti incidenti sul lavoro sono dovuti all’ignoranza, a volte
addirittura della lingua, che impedisce di seguire correttamente le procedure
per far funzionare un macchinario. Allora, la politica dell’ospite consente,
con l’approccio intellettuale, di dare avvio a un processo di valorizzazione.