LA MIA IRA CONTRO L'APATIA

Qualifiche dell'autore: 
scrittore, pittore, fondatore del Comitato internazionale per la pace in Medio Oreinte

Per essere adirati occorre essere ottimisti. Seneca condanna l’ira nel suo libro De ira. È vero, l’ira, dai greci in poi, è una sorta di malumore che si esprime contro i nostri vicini e i nostri familiari e che può portare alla violenza. Ma io appartengo a un’altra tradizione, che non è quella greca, ma quella giudaico-cristiana, in cui l’ira fa risvegliare le coscienze e mostra le ingiustizie del mondo a coloro che non le vedono. Il profeta è adirato. Gesù Cristo – anche se io non sono Gesù Cristo –, quando scacciò i mercanti dal tempio, era adirato.

È un’ira positiva e vi do un esempio di come l’ira di un individuo possa suscitare una presa di coscienza da parte della maggioranza della popolazione: un anno e mezzo fa, in Francia, un gruppo di razzisti ha sequestrato un ragazzo ebreo, che è stato torturato e poi ucciso. Sicuramente, i francesi hanno provato orrore per questo atto, ma nessuno è sceso spontaneamente in piazza, cosa che in realtà oggi facciamo sempre meno. Due giorni dopo, sono stato invitato a una trasmissione in diretta televisiva molto popolare in cui avrei dovuto parlare dei miei libri. Ovviamente, in quel momento ero adirato, quindi, quando il giornalista mi ha posto alcune domande sui miei libri, ho detto che non potevo parlarne perché ero adirato. Allora, mi ha chiesto perché e ho spiegato che ero adirato contro coloro che all’inizio del ventunesimo secolo riescono addirittura a uccidere un uomo in quanto ebreo, ma ero adirato ancora di più contro l’apatia di sessanta milioni di francesi che non avevano reagito. Quando il giornalista mi ha chiesto che cosa avessi intenzione di fare, ho risposto che volevo risvegliare la coscienza delle persone chiedendo loro di gridare, semplicemente gridare. A quel punto, il giornalista ha lasciato che mi alzassi in piedi e mi rivolgessi ai milioni di francesi che stavano guardando il programma: “Sapete gridare? Allora, contiamo fino a tre e poi, insieme, gridiamo”. Così, ciascuno ha gridato. L’indomani, mentre camminavo per le strade di Parigi, la gente si fermava, tirava giù il finestrino e mi diceva: “Signor Halter, io ho gridato ieri sera, ho gridato con lei”. La gente era felice di avere espresso la propria indignazione. Un settimanale satirico francese ha dato un titolo in grande: “Allons enfants de l’apatie”, con un gioco di parole che riprende l’inno nazionale “Allons enfants de la Patrie”.

Come può il grido di un individuo aprire gli occhi dei ciechi? È un’idea che si trova nel Vangelo, quando racconta che Gesù restituisce la vista ai ciechi: con il suo grido d’indignazione, apre gli occhi di coloro che non vedono. Questo è ciò che accade.

La mia ira (Spirali) è un libro particolare. Io sono un narratore: c’è differenza fra il narratore e lo scrittore. Lo scrittore scrive per gli uomini, ossia per l’umanità astratta, non sa chi lo leggerà, forse nessuno, forse qualcuno fra cinquant’anni. Racconta storie, espone idee, scrive, in un rapporto privilegiato con il linguaggio. Un narratore invece si rivolge a qualcuno in particolare. Per esempio, se io fossi vissuto duemila anni fa, sarei andato davanti ai templi di Gerusalemme e avrei narrato le mie storie agli uomini e alle donne che mi avrebbero circondato. E avrei potuto guardarli in faccia e parlare a loro, perché per me l’umanità non è un’astrazione, è fatta di visi che conosco e incontro nelle strade, nei caffè, in aereo.

Allora, per condividere la mia ira con le persone, con i miei lettori, ho inventato un interlocutore: un vecchio ebreo religioso – io non sono religioso – che m’interpella ciascun mattino accanto alla casa di Victor Hugo, in place des Vosges a Parigi, a due passi dalla mia abitazione. E di che cosa discuto con il mio interlocutore? Di tutto ciò che mi fa adirare, per esempio, il terrorismo, ilgodimento degli imbecilli, di coloro che uccidono per imporre un’ideologia, un’idea di felicità per gli uomini. Ma occorre uccidere per dare la felicità agli uomini? Sappiamo bene quali sono stati i risultati delle ideologie che impongono la felicità con la forza: Auschwitz e i gulag. La mia ira è contro il terrorismo che ancora esiste: Bin Laden è ancora lì, nascosto nelle grotte delle montagne dell’Afghanistan e da lì ha cambiato la nostra vita. E noi che cosa abbiamo fatto? Ci siamo battuti – i giornalisti poco fa mi hanno posto alcune domande sulla mondializzazione – per abolire le frontiere, affinché gli uomini, le idee e le merci potessero viaggiare tranquillamente da un paese all’altro e oggi, quando prendiamo l’aereo, dobbiamo arrivare due ore prima, spogliarci e toglierci le scarpe ai controlli, buttare i contenitori di liquidi che potrebbero contenere esplosivo e la nostra libertà diminuisce sempre più, non perché siamo in una dittatura, fortunatamente, in Europa viviamo nella democrazia, ma perché Bin Laden, dalle montagne dell’Afghanistan, c’impone ormai la dittatura della protezione, della protezione della nostra vita. E, in nome di questa protezione della nostra vita, ci ritroviamo nel mondo descritto da Orwell in 1984: in Inghilterra, il paese di Orwell per eccellenza, le telecamere sono dappertutto e ci guardano mentre attraversiamo la strada, quando torniamo a casa e magari quando facciamo l’amore. Allora, come potrebbe tutto ciò non farci adirare?

Un’altra cosa che mi fa adirare è la confusione che fanno alcuni amici, anche se per una giusta causa, fra il comunismo e il nazismo. Non sono la stessa cosa. Per quanto il risultato sia pressoché lo stesso, la fonte non è la stessa. Non si può paragonare Il capitale di Marx con il Mein Kampf di Hitler. Il Mein Kampf annuncia quello che il nazismo avrebbe poi realizzato: la distruzione del popolo ebraico, la trasformazione di tutti gli slavi in schiavi, l’assoggettamento degli altri paesi europei, tutto questo in nome della razza suprema. Li abbiamo visti al processo di Norimberga e non ci è sembrata una bella razza, neanche tanto coraggiosa. Comunque, tutto questo è stato scritto. Quando invece Marx scrive Il manifesto del Partito Comunista pensa alla felicità degli uomini, all’uguaglianza, alla fraternità, fondandosi sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che è seguita alla rivoluzione francese e all’illuminismo, a Voltaire e a Montesquieu. Poi, gli uomini che si proclamavano fautori del marxismo hanno trasgredito i suoi stessi principi, hanno creato i gulag, hanno affamato gli ucraini – Solzhenitsyn parla di sessanta milioni di morti e anche se fossero cinquanta milioni sarebbe comunque orribile –, ma, se facciamo un paragone fra due cose che sono incomparabili, non possiamo trarne una vera lezione.

Lo stesso si può dire di un’altra cosa che mi fa adirare e mi riguarda molto da vicino. All’inizio del movimento SOS Racisme – che oggi ha due milioni di membri in Francia, una grande vittoria – abbiamo sensibilizzato la popolazione francese, e non solo, contro il razzismo, ma abbiamo mescolato il razzismo e l’antisemitismo. Anche in questo caso, per una giusta causa. E ancora oggi, tutti gli uomini politici in Francia, compreso il nostro presidente Sarkozy, vanno in televisione e dichiarano che lotteranno contro il razzismo e l’antisemitismo. Hanno ragione, occorre lottare contro entrambi, ma non sono la stessa cosa. E se non siamo riusciti a progredire vuol dire che è come se avessimo dato lo stesso farmaco ai malati di cancro e a quelli di Aids. Sono due malattie mortali, ma non la stessa malattia. Lo spiego nel mio libro, spiego la differenza.

Il razzismo è questo: prima la paura e poi l’odio verso chi è differente. Noi abbiamo sempre paura di qualcosa che non somiglia a ciò che conosciamo. Una persona di colore è una persona di colore, noi siamo bianchi, i cinesi sono particolari. Quando ho incontrato il Dalai Lama la prima volta a Parigi, mi ha fatto un po’ paura, perché si esprimeva in modo differente, secondo la sua cultura. “Nel nostro paese sono state sterilizzate tutte le donne”, mi ha detto ridendo. Per lui la risata era un modo per farmi capire l’orrore di ciò che era ed è successo in Tibet – oggi si parla molto del Tibet, con l’avvicinarsi delle Olimpiadi di Pechino. Quando io parlo di cose orribili non rido, piango. Ma per lui ridere è come per me piangere. Quindi, occorre capire che non siamo tutti uguali, ma ciascuno di noi ha la propria cultura, la propria storia, la propria religione, le proprie letture. È questa differenza che ci fa paura. Ciascuno di voi guida la macchina: se vi fermate troppo vicino a un pedone che attraversa la strada, gli fate paura e lui vi guarda con astio, perché l’avete spaventato. Lì incomincia il razzismo. E sappiamo a che cosa porta: i campi di concentramento, la schiavitù e così via.

L’antisemitismo è tutt’altra cosa. Gli ebrei non sono differenti: un ebreo in Italia è un italiano, a meno che non facciamo come quegli studenti di Roma che hanno redatto l’elenco di tutti i professori ebrei o di origine ebraica. Senza quell’elenco, nessuno avrebbe saputo che quei professori erano ebrei. Ma questo è ciò che faceva il nazismo, la lista di denunce. In Francia, gli ebrei francesi sono francesi, in Africa sono persone di colore, in India sono indiani, in Cina sono cinesi. Sono persone che hanno una storia parallela con diversi valori, che si trovano nell’Antico Testamento, quindi nella Bibbia, e una lingua, che può essere l’ebraico o un’altra lingua; gli ebrei parlavano anche il babilonese, l’aramaico – la Bibbia è stata scritta in aramaico –, l’arabo – il grande filosofo ebreo Maimonide scriveva in arabo –, lo yiddish, che è la mia lingua, o altre lingue. Ma perché gli ebrei fanno paura? Perché “si nascondono”, sono come una sorta di quinta colonna, come diceva Mussolini, il quale li paragonava ai camaleonti: assumono il colore della società in cui vivono. C’è anche chi li chiama ipocriti: fanno finta di essere come noi, ma non sono come noi. L’antisemitismo è un po’ più profondo del razzismo, in un certo senso. Possiamo abituarci a vivere a fianco di un musulmano, per esempio, che ha le sue festività e la sua cucina, con odori differenti dalla nostra, ma facciamo più fatica a convivere con qualcuno che sappiamo che è come noi e poi, in un determinato momento, impariamo che egli si riferisce ad altri valori. Altri valori? Valori che sono di ciascuno di noi, come il rispetto del prossimo, e così via. Questo per dirvi che la causa dell’antisemitismo e del razzismo non è la stessa e ritengo che le persone debbano imparare a pensare complesso.

Tornando al mio libro, concludo con un riferimento all’odio che ciascuno di voi condivide nei confronti della morte. Avrei potuto iniziare il mio libro da quella che adesso è la conclusione, perché quando voi odiate veramente la morte, che secondo me è la più grande delle ingiustizie possibili, indipendentemente dalla nostra età – ieri ho incontrato a Parigi Shimon Perez, che ha ottantaquattro anni: la sera era molto stanco, dava la mano come se fosse un robot, ma questo non importa, ha ancora tantissimi progetti, ancora per venti o trent’anni. È chiaro che io spero che egli possa vivere fino a cento anni, ma quando arriverà il suo giorno, sarà comunque un momento d’ingiustizia –, quando voi odiate veramente la morte, automaticamente, voi odierete tutto ciò che porta alla morte, quindi, per esempio, il terrorismo, coloro che mescolano valori e concetti, tutto ciò che avvilisce la vita, chi non sa condividere le proprie ricchezze con gli altri; certamente, bisogna guadagnare denaro, ma bisogna anche saperlo condividere. Quindi, avrei potuto anteporre questo capitolo, ma siccome sono il prodotto della cultura giudaico-cristiana, l’ho lasciato per ultimo.