LA SCRITTURA DELLA MODERNITÀ

Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, presidente dell'Istituto culturale Felsina

Il 25 agosto 1256, la campana dell’Arengo del palazzo del Podestà di Bologna chiamò a raccolta i cittadini bolognesi in piazza Maggiore: il Podestà e il Capitano del popolo annunciarono la liberazione di circa seimila servi. Furono riscattati con il pagamento, da parte del tesoro comunale, di otto lire d’argento bolognesi (per i bambini) e dieci (per i maggiori di 14 anni). Con quello che era uno dei principali atti liberatori servili medioevali, chiamato inizialmente Paradisum voluptatis, Bologna fu il primo comune italiano, e una delle prime città al mondo, a introdurre un provvedimento che aboliva ufficialmente la servitù.

Si tratta di un documento importantissimo, non inferiore, forse, alla Magna Charta, documento che introduce alla modernità a seguito di un’invenzione politica e economica, oltre che di diritto. La modernità non sta nel riproporre la polis e l’agorà, l’antico concetto di democrazia, ma sta nel valorizzare l’invenzione, nel tenere conto del fare e dell’occorrenza, della cultura, dell’arte e dell’industria di ciascuno.

Non c’è stata industria che non sia stata anche industria della parola. E quest’industria che non escludeva la parola iniziò a formarsi proprio qui, lungo il cosiddetto asse etrusco, tra Firenze e Bologna, con Dante, Guinizelli, Cavalcanti e il laboratorio del “dolce stil novo”, ma anche con le confraternite di lavoro, ciascuna delle quali, come notava Dante, e come ciascun borgo, aveva una propria lingua per un approccio intellettuale agli strumenti e ai metodi di lavoro.

La scrittura è nella parola e della parola – ha affermato Armando Verdiglione, fondatore di una straordinaria esperienza intellettuale, culturale e artistica, che tiene conto dell’industria e della finanza – e le cose si scrivono perché si fanno. In questa esperienza ho avuto la fortuna d’incontrare Erik Battiston. È stato un incontro iniziato con conversazioni e lavoro redazionale, che ha portato all’invenzione del libro La città moderna (Spirali), pagina dopo pagina, che Battiston ha scritto in questi anni, lungo un dispositivo che lo ha posto in rilievo come grande scrittore. Il dispositivo è quello della tripartizione dell’esperienza, proprio della cifrematica, della scienza della parola, in cui la questione essenziale è questa: come l’esperienza si scrive, come nessun elemento può considerarsi o situarsi come estraneo alla parola e alla sua scrittura.

A quest’incontri, come a ciascuna pagina del suo libro, Erik Battiston ha apportato la testimonianza della sua esperienza, di anni, in una grande e nota fabbrica del Nordest d’Italia, a cui ha recato contributi significativi nell’organizzazione del lavoro e nella produzione e da cui ha tratto elementi importantissimi per la sua elaborazione e per la sua narrazione.

Battiston ha saputo affrontare, e talvolta fronteggiare, situazioni anche difficili – legate alla vita di questa fabbrica, come i conflitti sul lavoro, il modo d’intendere le differenti figure all’interno di un grande dispositivo di produzione, i rapporti con i sindacati e con l’organizzazione aziendale –, trovando nella parola e nella scrittura il modo di proseguire e vivere nell’indulgenza e di non soccombere all’abitudine e al principio della polemologia.

La città moderna è un libro coltissimo, in ciascuna pagina si avverte l’eco delle tante letture dell’autore, con citazioni fini e specifiche, con molti elementi di lettura del disagio a partire dalla psicanalisi e dalla cifrematica. Un libro scevro da esibizioni di erudizione. Partendo da questa sua forte esperienza, Erik Battiston è arrivato a pagine di grandissima scrittura, in cui s’intravede un’altra modernità rispetto a quelle storicistica o intimistica e di cui il fare, l’invenzione, l’industria, la poesia, la narrazione, l’arte, la psicanalisi sono il riferimento più qualificante e indicativo. Il libro è frutto dell’esperienza originaria in cui la teoria e la riflessione sono sempre presenti, con il riferimento costante al pragma contro il realismo del fatto, proprio del messaggio mediatico e del luogo comune dell’epoca. Ciò per quanto riguarda il lavoro in fabbrica, svolto sempre in modo inventivo, il suo impegno intelligente nel sindacato, il contributo all’organizzazione del lavoro. Ma anche per quanto concerne situazioni di vita proprie della provincia Italia, questo libro sottolinea l’assurdità del conformismo e di ogni forma di rappresentazione idealizzata, rileva il disagio e il modo di affrontarlo, analizza il rapporto medico paziente, soprattutto in ambito psichiatrico, e la questione della salute, fino a pagine di vera poesia quando allude agl’incontri con le donne. Trovo grande anche il contributo dato a una nozione moderna di libertà, e per tale motivo l’ho accostato alla vicenda storica del Liber paradisus. Libertà è istanza di chi non si sente schiavo e non ne accetta la logica. Libertà è istanza costante, anche lungo la clinica, di valorizzazione.