DA UN'EPOCA ALL'ALTRA, UN SEGNO MISTERIOSO

Qualifiche dell'autore: 
poeta, scrittore, drammaturgo

Shen Dali e Dong Chun sono dei veterani per quanto riguarda il confronto “eterodosso” tra artisti. Nei loro precedenti libri della collana “L’arca. Pittura e scrittura” (Spirali), hanno messo a confronto artisti come Chagall e Vangelli, Matisse e Frasnedi, Renoir e Zejtlin, Rublëv e Ambrosino. Cioè un autore classico e uno moderno, tra i quali tuttavia non c’era una grande distanza temporale. In questo nuovo libro, Michelangelo Buonarroti e Günter Roth, invece, la distanza è vistosa. Da una parte, uno dei massimi artisti del rinascimento e, dall’altra, l’artista tedesco Günter Roth, divenuto noto nel 1974, con una mostra ad Aquisgrana, dove riceve il premio dell’arte della città.

I due autori, Shen Dali e Dong Chun, forse perché provengono dalla Cina, dove l’arte contemporanea non sempre viene compresa, sono portati a riflettere sull’origine dell’arte di oggi e sulla sua differenza da quella classica. Confrontare un artista classico e uno contemporaneo, distanziandoli sempre più, man mano che procedono nelle loro ricerche, è intrinseco al loro lavoro e al loro modo di vedere le cose. Inoltre, accanto a questo procedere per elementi sempre più distanziati, c’è il loro metodo di ricerca, non sempre presente nella storia dell’arte, che stabilisce un confronto netto e deciso tra arti figurative e poesia. Magari i loro raffronti che non sempre sono centrati, tuttavia sono illuminanti, propongono una luce diversa, più profonda, e creano una sorta di spaesamento utile per comprendere maggiormente l’opera che si ha di fronte. Questo atteggiamento di ricerca sul senso dell’arte contemporanea fa pensare a un libro del 1925: La disumanizzazione dell’arte, di José Ortega y Gasset. Leggiamo un passo (forse l’esempio è un po’ lugubre): una persona sta per morire e accanto al suo letto ci sono la moglie, un pittore, un giornalista e altri personaggi. Ebbene, Ortega y Gasset dice che ciascuna di queste persone ha un punto di vista differente. Il giornalista penserà a descrivere l’uomo e l’ambiente di quel momento, il pittore cercherà d’inquadrarlo, la moglie è il personaggio più partecipe, il medico, anche se non è coinvolto, ha un suo interesse professionale. Gasset si chiede che cosa sarebbe l’elemento costitutivo di tutto questo: la vita vissuta, il vissuto. E aggiunge: “Un quadro, una poesia, dove non rimanesse alcuna traccia delle forme vissute, sarebbe inintelligibile, cioè non sarebbe niente, come nulla sarebbe un discorso in cui a ogni parola si fosse sottratta la sua abituale significazione”. (All’epoca della lettura di questo libro avevo scritto in nota: “Sì, vai a dire tutto questo all’avanguardia”. Perché l’avanguardia di allora non teneva assolutamente conto dell’intelligibile, del fatto che le tracce di vissuto andavano risparmiate e non cancellate).

Gasset invece è un sostenitore del vissuto e poco dopo fa un esempio significativo, quando dice che, pensando a Napoleone, una persona si riferisce al personaggio storico e a tutti gli eventi che lo riguardano, mentre l’artista si disinteressa di Napoleone per guardare al proprio mondo interiore, al proprio modo di considerare Napoleone. Dunque, un evento completamente staccato, in un certo senso devitalizzato e portato verso la soggettività. Questa rottura dell’elemento oggettivo – Napoleone e la Storia – verso un elemento fortemente soggettivo – Napoleone e quello che io penso di Napoleone; mi guardo pensare Napoleone, sono in qualche modo napoleonizzato, ma in ogni caso sono lontano dalla Storia – forse può segnare quella strada che Ortega y Gasset chiama la disumanizzazione dell’arte. “Disumanizzazione dell’arte” in quanto l’umano viene sempre più cancellato e l’artista contemporaneo è ben contento di potere cancellarlo, anche perché il godimento diventa intellettuale, non è più di tipo popolare, anche se non è che l’arte classica fosse un godimento pop così esplicito.

Tutto questo mi ha portato a un testo di poesia che avevo scritto sull’arte contemporanea: “Se si potesse ottenere la vita dell’albero// sarebbe come trovare un punto di una metafora.// Il linguaggio scende oltre il cemento// e nell’arte moderna l’uomo si rappresenta costruendo la memoria.// La terra lo proietta nei suoi immediati processi,// ma una casa bianca, per mal fatta che sia,// non è un pensiero,// per sghembi e neri che siano i portoni// la luna rode quelle cime per chi vuole costruire imitando la felicità”.

Il verso costitutivo, che in qualche modo s’imparenta con quello che sto tentando di dire in questo momento, è proprio “la casa, per mal fatta che sia, non è un pensiero”. In ogni caso, l’artista si avvicina, imita, ma il fatto che l’artista moderno mal faccia, anche intenzionalmente e volontariamente, non lo assolve dall’arduo compito dell’arte e della storia.

Il libro di cui qui si tratta mette in confronto l’artista tedesco Günter Roth e Michelangelo, di cui ciascuno di noi ha ricordi scolastici.

Ma qui si tratta di un Michelangelo diverso, quello del Tondo Doni, del 1504, che mi ha fatto anche un po’ sobbalzare: c’è un bella Madonna con la testa reclinata, San Giuseppe e poi sullo sfondo sei efebi. È stranissimo, c’è una ricchezza di particolari che in qualche modo contrasta violentemente con la sacra famiglia. Ma poi prendiamo altre opere di Michelangelo che rappresentano figure che sprigionano una forza erotica non da poco: la Vittoria, l’Apollo, il Davide, Cleopatra, Lo schiavo ribelle e poi soprattutto Lo schiavo morente, del 1513, alto due metri, un gigante. Allora qui si tratta anche di un Michelangelo “moderno”, che può trovare una sorta di analogia con Günter Roth, forse nei gessetti, ma soprattutto in quello che di Michelangelo noi abbiamo perso. Non si potrebbe rappresentare la figura come lui la rappresenta, o per lo meno l’artista moderno deve mal fare le case. In ogni caso, c’è una specie di spostamento semantico, spostamento di significato e di forma, che in Roth è anche preciso, perché spesso anch’egli sdoppia le persone, sembra che siano due – in realtà è una, vista in prospettive diverse –, avvicinate secondo una specie di ritmo, di movimento, che dà una sorta di drammaticità quasi esemplare all’opera. Ma poi guardiamo, per esempio, il gessetto L’ombra femminile, il cui tratto ricorda un Matisse. Allora, forse, ha ragione Shen Dali quando dice che gli artisti parlano tra loro anche a distanza di molto tempo, pur cercando di ricontestualizzare le opere e il segno, è un dialogo che non s’interrompe.

Avendo militato nell’avanguardia da giovane, sono portato a procedere per vie decise, quindi a cancellare il passato, a non avere a che fare con la retorica nazionale.

Però, questa specie di dialogo tra gli artisti del passato e quelli del presente è recuperabile, a patto di volere limitare la retorica che spesso segue a questi passaggi, il carico di significato, di simboli: se un artista oggi fa qualcosa come Michelangelo, è chiaro che non è Michelangelo. Il tratto di un rapporto che passa da un’epoca all’altra, un segno misterioso, un linguaggio sotterraneo va riconosciuto, ma non esagerato oltre i limiti.

Perché poi l’arte moderna si comporti in questo modo è un mistero. Forse perché siamo legati a una sorta di censura, d’inibizione interna, che ci mette in una specie di impasse.

Allora, penso che la strada che Shen Dali e Dong Chun stanno percorrendo sia proprio un’esplorazione del futuro dell’arte contemporanea, dopo questa specie di impasse che Ortega y Gasset chiamava la disumanizzazione dell’arte. Il futuro ci dirà se i due autori hanno ragione o torto.