DIARIO DAL MANICOMIO

Qualifiche dell'autore: 
medico, psicanalista, scrittore, già primario del Reparto Autogestito dell'Istituto Psichiatrico "Lolli", Imola

Riprenderei quanto ha raccontato Stefano Benassi a proposito di quello studente che vantava i benefici che alcuni pazienti degli Stati Uniti attribuivano all’uso dell’elettroshock. Tutto sta nell’intendersi sulla parola “beneficio”, perché, per esempio, oltre all’elettroshock, la psichiatria ha usato, e a volte usa ancora in alcuni paesi, la castrazione. Allora, non sarebbe difficile trovare uomini tormentati dal desiderio delle donne che si fanno castrare e, dopo, sono liberi da questo desiderio: potrebbero chiamare l’operazione un beneficio. La questione è molto precisa. L’unico effetto dell’elettroshock, riconosciuto da tutti gli psichiatri che lo praticano, è la diminuzione della memoria. Per non parlare del fatto che l’elettroshock procura artificialmente uno stato patologico, una perdita di coscienza e una convulsione simili, anche se non identiche, a quelle che avvengono nell’epilessia. L’epilessia purtroppo è una malattia, di tipo neurologico, che si può contrarre, per esempio, in seguito a un incidente stradale. Una persona che in un incidente stradale batte la testa ha una piccola emorragia che procura una lesione al cervello, che può causare crisi epilettiche periodiche. Ciò significa perdita di coscienza e convulsioni. Dostoevskij aveva l’epilessia e l’ha descritta molto bene. È una malattia neurologica, e vi spiegherò perché dico “malattia neurologica”. Sono un medico, so bene che cos’è una malattia, e proprio per questo non uso il termine “malattia” quando si tratta di cose differenti. Si può affermare tranquillamente che il cancro al fegato è una malattia, nessuno può negarlo. Ma dire che l’omosessualità è una malattia sarebbe una pura idiozia.

Ora vorrei raccontare un episodio autobiografico, perché ho ascoltato molto volentieri l’intervento intelligentissimo dell’amico Vito Totire. Vorrei dire in breve che cos’è un manicomio giudiziario nella sua concretezza. Quando avevo dodici anni ero arrivato da poco a Firenze e giravo per la città in bicicletta. Ricordo che un giorno, mentre pedalavo per una strada di Firenze, a un certo punto rallentai e fui raggiunto da una guardia municipale – non ricordo se avevo ragione o torto, ma non è questo il punto – che mi disse che al semaforo precedente ero passato con il rosso. Mi disse anche che, dopo essere passato con il rosso, per non essere sottoposto a multa, ero scappato e lui mi aveva raggiunto. Poiché io avevo dodici anni e lui poteva averne cinquanta, gli risposi, forse ingenuamente, che se avessi avuto intenzione di scappare, lui non mi avrebbe preso; poiché mi aveva preso, voleva dire che non avevo avuto intenzione di scappare. Mi prese, per offese a pubblico ufficiale, e mi portò al Palazzo Vecchio, sede del Comune di Firenze. Lo sentii che discuteva con il suo capo, poi chiamò alcuni funzionari e disse: “Questo ragazzo è un po’ grullo – cioè un po’ pazzo – perché l’ho colto in flagrante mentre violava il codice e poi ha cercato anche di prendermi in giro dopo avere commesso questo reato”. Al tempo di questi fatti mio padre, che ora è morto, era ingegnere, funzionario delle industrie elettriche. Chiesi di telefonargli. Siccome era una persona importante in città, fui rilasciato e tornai a casa. Nel corso degli anni studiai medicina, e ora sono qua. Ma probabilmente sarei in manicomio giudiziario se mio padre non fosse stato una persona importante.

Veniamo ora alla questione della malattia mentale. A volte sembra che Thomas Szasz, che ha scritto il Mito della malattia mentale, oppure Edelweiss Cotti, che era convinto che Szasz avesse ragione, oppure io stesso o altri, ci siamo alzati una mattina e abbiamo detto: “Non ci sono le malattie di mente!”, come se non volessimo riconoscere la sofferenza, facendo confusione tra il concetto di sofferenza e quello di malattia, che sono assolutamente diversi. La sofferenza fisica, in sé, non è una malattia. Se ho una colica addominale, questa può dipendere da un’infezione intestinale o da un tumore o da una gastrite oppure, se ho un dolore particolarmente forte, anche da un infarto. Ci sono, cioè, differenti possibilità, nell’organismo c’è una malattia e il dolore è il suo segnale fisiologico, non la malattia in sé. Questo segnale fisiologico ci avvisa che nell’organismo c’è qualcosa che non funziona e da cui bisogna difendersi. Infatti, se ho la colica, il medico la diagnostica e poi la cura. Se non ci fosse il dolore, non me ne accorgerei e morirei. Questo succede, per esempio, con i tumori, che avanzano senza dare dolori e quando ci si accorge è troppo tardi. Mi è capitato personalmente. Stavo benissimo, ma un giorno ho urinato sangue. Questo era un segnale; infatti, avevo un tumore alla vescica. Per fortuna, c’è stato quel segnale. Mi sono operato e ora sono vivo. Però il dolore non c’era stato, e fu un peccato che non ci fosse stato. Il dolore è, dunque, un segnale fisiologico, non patologico, che dà l’organismo quando al suo interno ci sono attività distruttive. Il dolore morale è lo stesso un segnale, di fronte a qualcosa che accade, nella nostra vita di relazione, di dannoso, minaccioso o terribile per noi. Quando muore una persona indispensabile si viene travolti dal dolore perché si è perduto un rapporto indispensabile. Il dolore fisico è il segnale di una distruzione nell’organismo, il dolore morale è il segnale di una distruzione nella vita di relazione. La confusione tra dolore e malattia è alla base del concetto di malattia mentale. Quando si dice che uno soffre, occorre precisarne il significato. Si può soffrire per una colica addominale; questa è una sofferenza fisica e, se s’interviene e si cura la malattia, quel dolore si allontana. Si può soffrire moralmente, si può per esempio manifestare depressione perché si è perduta una persona cara e non ci si dà pace, non si può vivere senza di lei e si può arrivare anche a suicidarsi. Ma questa non è una malattia, è un rapporto che si ha con la realtà. La realtà segnala distruzioni che non sopportiamo e se ne traggono le conseguenze.

Veniamo ora alla storia. Il primo a dire, anche se poi non fu coerente – la coerenza non è una qualità di nessuno, e questo è un altro dato importante, soprattutto quando si viene accusati d’incoerenza – che la sofferenza non è una malattia fu Jean-Martin Charcot. Sigmund Freud, a trent’anni, sentì dire che Charcot era il più grande neurologo d’Europa e andò a Parigi per ascoltare le sue lezioni. Nelle sue lezioni all’università Charcot mostrava le donne del suo manicomio, la Salpetrière, che alcuni chiamavano l’asilo delle donne perdute, allora ne ospitava cinquemila. Charcot spiegava agli studenti il motivo per cui ciascuna di quelle donne, invece di essere libera, era alla Salpetrière. Perché, affermava, probabilmente – Charcot era intelligente, per cui diceva “probabilmente” – ha difetti ai nervi. Questo diceva agli studenti all’università. Ma aveva studenti prediletti, tra cui Freud – Freud era ebreo e Charcot notoriamente antisemita, eppure s’incontravano – e i prediletti andavano a casa sua, si riunivano all’osteria e parlavano degli argomenti scientifici. Charcot, all’università, non aveva il coraggio di dire quello che diceva a tali studenti, perché aveva un certo rispetto per il potere e riguardo per la sua carriera. A tali studenti diceva, di nascosto, altre cose, tra cui che a suo parere il discorso delle donne rinchiuse alla Salpetrière non era un problema di nervi, né di cervello, ma l’effetto del conflitto terribile tra la sessualità femminile e i costumi della società. Su questo Freud fondò la psicanalisi, smise di fare il neurologo e incominciò a fare, come disse lui stesso, “il biografo”. Quando gli psicanalisti degli Stati Uniti gli chiesero se lo psicanalista dovesse essere un medico lui disse di no, disse che non era necessario essere medici e raccontò che tutte le donne rinchiuse alla Salpetrière non erano lì per malattia, ma per un conflitto con la società. Aggiunse che quando si occupava del problema dell’“isterismo” – come si usava dire allora – lo faceva come biografo, ammettendo così che non si trattava di malattia. Comunque, in quel periodo si discuteva moltissimo se l’“isterismo” fosse o no una malattia, ben prima di Thomas Szasz. Allora dico, come Charcot, che le persone che ho trovato ricoverate in manicomio non erano e non sono malate, ma erano ricoverate per un loro conflitto con l’ambiente sociale. La differenza tra Charcot e me – differenza che non dipende tanto da miei meriti quanto dall’epoca che è cambiata – è che Charcot ha lasciato le persone in manicomio mentre io le ho “buttate fuori”!