LA NOSTRA BUSSOLA

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Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Gli psicofarmaci, l’elettroshock, i trattamenti sanitari obbligatori, i farmaci immunodepressivi, l’abuso di chirurgia vengono giustificati dalla mitologia medica con il principio di necessità, di mancanza di alternative: se non si fanno queste cose, che cosa si può fare? Così, in nome della salute ideale, futura, questa medicina limitata dalle proprie convinzioni e convenzioni impone la morte presente, nel migliore dei casi la vita bianca. Trascurando che, in vari ambiti, scienziati, medici e ricercatori sono protagonisti, ciascun giorno, della battaglia per la salute, che non si attiene al rispetto dei protocolli, ma all’istanza della qualità della vita. In questo numero, che trae spunto dal dibattito suscitato dai libri di Giorgio Antonucci, Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri, e di Georges Mathé, Elisabetta Pontiggia e Paolo Pontiggia, Questione cancro, editi da Spirali, ne diamo testimonianza.

Può dirsi scientifica la medicina definita dagli standard terapeutici, misurata dalle statistiche, piegata al business del farmaco, delineata da un’organizzazione mondiale? Da quando con Galileo Galilei, Leonardo da Vinci, Niccolò Machiavelli e Giambattista Vico la scienza è scienza della parola e della vita, è scientifica la medicina che si attiene all’individuo, alla logica particolare a ciascuno, all’intelligenza come arte del malinteso, non a ciò che risponde ai dettami della comunità scientifica. Questa comunità, per esempio, si è trovata dagli inizi del novecento a sancire i connotati patologici della schizofrenia, che lo psichiatra Thomas Szasz ha dimostrato, nel libro Il mito della malattia mentale (Spirali), non rientrare in nessun modo nei parametri di malattia. Questa comunità ha, di volta in volta, stabilito o negato le origini biologiche dell’omosessualità. Questa comunità ha inventato l’ADHD, sindrome da deficit d’attenzione e iperattività, aprendo le porte, agli inizi del terzo millennio, alla più vasta psicofamacologizzazione dell’infanzia che la storia ricordi.

La medicina scientifica si attiene alla ricerca e all’industria della parola, libere dal business del farmaco. È scientifica non perché possegga un sapere sulla vita e sulla morte, ma perché ricerca, discute e non dà mai nulla per escluso, scontato e esaustivo. Medicina nella parola, anziché parola come medicina, in cui la parola sarebbe l’ultima sostanza, psicoterapeuticamente. Mentre la new age vede nella relazione medico paziente l’ultima sostanza: la cura dipenderebbe dal loro buon rapporto, meglio se esente dalla parola, che potrebbe turbarlo e disturbarlo. Ma quale dispositivo di cura potrebbe sorgere dalla ricerca dell’intesa?

Nella medicina scientifica non c’è il rapporto medico paziente stabilito dai protocolli, ma il dispositivo di parola, di ricerca, di battaglia, in cui la conversazione procede dall’apertura, in assenza di pregiudizio, in uno statuto di ascolto. Essenziale in questo senso la constatazione di Giorgio Antonucci nel libro Diario dal manicomio: “Non ho mai incontrato nessuno il cui pensiero fosse privo di significato”. Questo non vuol dire negare il disagio, anzi: il disagio è negato da chi non lo considera pensiero, dunque non ha bisogno d’intendere e perciò lo psicofarmacologizza e lo sottopone a elettroshock. La cifrematica, la scienza della parola, di cui la nostra psicanalisi è un aspetto, formula il disagio come modo con cui le cose entrano nella parola, non accetta l’ideologia della malattia mentale, non accetta la formalizzazione pseudoscientifica e assolutamente ideologica del disagio. Questa ideologia che crede che ci sia un pensiero privo di significato e che possa esserci chi conosce, giudica, cura il significato del pensiero di qualcun altro.

L’altro alibi della medicina pseudoscientifica è la sofferenza: come potrebbe il medico esimersi dall’alleviarla? Ma come nota Giorgio Antonucci, non sempre quella che viene chiamata sofferenza è sinonimo di malattia. Intervenire contro la cosiddetta sofferenza comporta invadere ambiti concernenti il pensiero, le relazioni, la ricerca, l’esperienza, la vita stessa di ciascuno, che non devono essere di competenza medica. Inoltre, per aiutare l’Altro ritenuto sofferente, la cura spesso è prescritta e obbligatoria, magari avvalendosi della denigrazione di altre pratiche e ricerche. Ma invocare la finalità benefica dell’agire per legittimare il proprio intervento è argomentazione degna di ogni inquisizione: come scrivono Institor e Sprenger nel loro trattato Il martello delle streghe (Spirali), la stessa morte sul rogo è a fin di bene, perché libera l’anima dalle sofferenze e dal dolore che un corpo posseduto le infligge.

La medicina scientifica non è una dottrina della liberazione. Come notano nei loro interventi Paolo Pontiggia e Larry Clapp, occorre che la cura sia appropriata e specifica, che assicuri buone condizioni di vita più che l’eliminazione della malattia, sempre mancata dagli stessi farmaci che la promettono, a caro prezzo. La domanda di guarigione avanza istanze pulsionali, esigenze pragmatiche che non mirano alla chiusura rapida e indolore del caso, ma alla qualificazione della vita. Occorre che, con l’apporto del medico, s’instaurino dispositivi alimentari, organizzativi, clinici, di formazione, di scrittura, d’impresa, ben oltre l’ideologia della prevenzione, e senza delegare la direzione della cura. Come nota, in questo numero, Anna Spadafora, la battaglia per la salute non è contro qualcosa o contro qualcuno, ma per la riuscita delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, ciascun giorno, indipendentemente dalle malattie e dai problemi in cui ciascuno può imbattersi nel viaggio della vita. La salute è la bussola di questo viaggio, in cui vivere non è scontato, ma è il compito indelegabile per ciascuno.