L'OSPITALITÀ INTELLETTUALE

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cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Non c’è politico, giornalista, operatore turistico che non auspichi, esalti, esiga, ostenti tolleranza e ospitalità. In Emilia Romagna, in particolare, vengono date per scontate: gli amministratori pubblici si sono sempre proclamati alfieri della tolleranza, mentre l’industria turistica, dalle città d’arte agli alberghi della riviera romagnola, ha dipinto l’ospitalità come una virtù naturale degli abitanti di queste zone.

Eppure, proprio in Emilia Romagna, emergono segnali inquietanti: dalla crisi del turismo nella riviera adriatica ai provvedimenti di ordine pubblico, con le contestazioni che ne sono seguite, qualcosa sembra essersi inceppato in queste terre dell’accoglienza. E, prendendo come giustificazione la concorrenza degli altri paesi e la pericolosità degli immigrati, si aumentano i divieti, aggiungendo così intolleranza a intolleranza. È in crisi, qui come altrove, un modello? Tolleranza e ospitalità valgono meno del bisogno di legalità e di sicurezza sociale?

La questione è che, con la fine dell’illuminismo e delle ideologie, sempre più inadeguati alla modernità, quella che era stata chiamata fin qui tolleranza sta dissipandosi. In effetti, non era altro che pluralismo quale principio di lottizzazione monista; era rispetto del diverso purché funzionale all’universo. La tolleranza illuminista è intollerante, permette tutto purché si rispetti il principio di ragione sufficiente, che va dalla ragione di stato alla ragione sull’Altro. La ragione sufficiente è ragione limitata, è proibizione sociale contro la differenza e la varietà della parola, contro la modernità.

La parola non si riduce all’unità: ecco la modernità. Il principio di tolleranza richiesto dalla città del secondo rinascimento è il principio del due, dell’apertura, e principio del tre, che comporta l’instaurazione dell’Altro e della differenza. Il principio del due ignora selezione e elezione, perché non ha bisogno d’unificazione. Tolleranza è relazione come apertura, non relazione funzionale al patto sociale, all’armonia sociale, alle politiche sociali, insomma, all’accettabilità sociale. Tolleranza è anche instaurazione dell’Altro, che non può essere personificato in questo o quell’altro. La tolleranza introduce e ammette la differenza, per questo è la base dell’ospitalità. Esige la solidarietà come istanza d’integrazione e il patto come dispositivo della riuscita; il suo motto, secondo Armando Verdiglione è “A ciascuno la sua logica, a ciascuno la sua impresa”. E la testimonianza degli imprenditori interpellati in questo numero, come Boris Kurakin, propone una tolleranza non altruista, dunque non ricattatoria, dal momento in cui essi si trovano nel rischio d’impresa, che è rischio di riuscita per loro, ma anche per i vari strati della città. Non senza difficoltà. Quale tolleranza, infatti, potrebbe instaurarsi in Emilia Romagna e altrove finché vigono le rappresentazioni dell’Altro che comportano pregiudizi, per esempio contro il commercio (come nota Carlo Marchetti in questo numero), l’impresa e la finanza, e paure, per esempio dell’Islam o della Cina?

Senza la tolleranza con cui esiste la differenza nessuna ospitalità. Lo indicano due esempi di negazione dell’ospitalità: quello delle città di Sodoma e Gomorra e quello di Procuste. Tutto è ammesso, tutto è fornito purché vengano accettate le regole della comunità, compresa quella che l’ospite deve adattarsi e essere tagliato a misura del letto. Ospitalità omofila, che cerca la parità. Ideologica è anche quella teorizzata da Jacques Derrida, un’ospitalità umana, possibile, facile. Per lui l’ospitalità è possibile solo se si attiene all’ospitalità vera, quella impossibile. Stabilisce un impossibile che legittimi il possibile, attenendosi al reale, alla realpolitik, alla misura d’uomo. Manca così il contingente, il terreno dell’ospitalità, che segue il diritto dell’Altro, non dell’uomo.

Invece Lot non oscilla tra possibile e impossibile, non si limita alla legalità o alla realpolitik. Incurante delle convenzioni e del pettegolezzo, ospita gli stranieri in casa propria. Con lui la casa propria non è la propria casa, quella di chi esercita sulle cose, e sulla propria vita, possesso e padronanza. Nella propria casa l’Altro è escluso, e nessuno si sente a casa propria.

Lo slogan dell’Hotel della Villa San Carlo Borromeo è “La vita è un unicum. E questa è la vostra casa”. Qual è l’albergo che può dire così? Quale la città? Quello in cui chi ospita non è padrone di casa, ma a sua volta si considera ospitato, anch’esso in viaggio tra una città e l’altra. La città non è propria, è dell’ospite, mentre la cittadinanza è pragmatica. E la nazione di ciascuno è la sua industria, come intuisce Giambattista Vico, non la sua nazionalità. L’ospitalità esige l’industria, che dissipa i nazionalismi.

L’ospite è ignoto, non è un soggetto, è l’Altro irrappresentabile. E non c’è Altro dell’Altro. Non a caso ospite indica sia chi è ospitato sia chi è ospitante: cessa così la dicotomia tra l’interno e l’esterno, noi e gli altri, e l’hostis, da cui deriva “ospite”, non è più nemico. L’industria turistica esige l’ospitalità dell’Altro, per questo non può vivere di certezze acquisite, di situazioni già scontate, ma richiede un’innovazione incessante. È ospitalità intellettuale, non dote naturale, che è vincente quando scommette sull’arte e sulla cultura più che sul benessere e sul colore locale.