TEMPO DI OSPITALITÀ
C’è aria di festa questa mattina alla redazione di “Tesori d’Italia”. Lara, la caporedattrice, esulta per la chiusura anticipata del sesto numero speciale nell’anno in corso. In cinque anni, con la sua equipe ne ha fatta di strada. Pensare che le sembrava di dover fare uno sforzo gigantesco per passare dal bimestrale al mensile. Oggi può dire che, per far crescere il giornale, oltre all’impegno e allo sforzo fisico, innegabili, c’è voluto uno sforzo intellettuale. Non più tardi di cinque anni fa, infatti, si lamentava di essere stanca: la periodicità era aumentata, ma non riusciva a trovare collaboratori validi, pertanto, la mole di lavoro che lei doveva seguire in prima persona diventava sempre più imponente. Uno non era bravo perché non prendeva abbastanza iniziativa, un altro perché ne prendeva troppa, c’era chi non riusciva a scrivere in modo brillante e chi invece, al contrario, faceva voli pindarici, chi non s’impegnava abbastanza nella ricerca di pubblicità e chi, trovandone troppa, poteva comportare il pericolo di acquisire troppa voce in capitolo e, un domani, orientare le scelte editoriali.
Così, fra mille paure e rappresentazioni del collaboratore come Altro ideale positivo o come Altro reale negativo, in definitiva, come animale fantastico, genio pericoloso o incapace dannoso, per Lara diventava ogni giorno più difficile costituire un’equipe. Vedeva se stessa e tutto il giornale crollare sotto una montagna che si faceva sempre più alta, mentre lei si riduceva a non avere più neanche il tempo per mangiare. Ne parlò con Giorgio, vecchio amico e maestro di vita che l’aveva aiutata molto quando era rimasta vedova a soli trent’anni. Gli raccontò quello che stava accadendo, ma con lui era impossibile lamentarsi – occorreva analizzare: “Hai pensato perché ti accade questo?”, chiedeva –, a una domanda rispondeva spesso con un’altra domanda. Era impossibile chiudere la questione, bisognava indagare, mettersi in discussione e dare una risposta al problema, non aspettarsela da lui o da altri ritenuti responsabili. Impossibile delegare la responsabilità. “Penso”, gli disse a un certo punto, quando la conversazione si era fatta molto accesa e lei non era riuscita a spuntarla in niente, “che non si possa lavorare in una sede così piccola. Alla fine, se avessi varie stanze, una parte del problema sarebbe risolto”. Giorgio non capiva: “In che senso? Pensi che potresti trovare collaboratori validi se il luogo di lavoro fosse più accogliente?”. “Sì, quando lavoro alla redazione di un articolo o quando faccio una telefonata, ho bisogno di concentrazione. Per me è molto difficile lavorare se nella stessa stanza ci sono altri, che magari mi guardano, come fanno le persone che non sanno ancora cosa fare e hanno bisogno di un po’ di tempo per imparare. È come se volessi che questo periodo di apprendistato durasse un giorno. Adesso che mi ci fai pensare, accade proprio così: il primo giorno con i candidati sono molto accogliente e gentile e illustro quello che devono fare, il secondo li metto alla prova e, se il terzo si mostrano inadeguati, incomincio a provare un fastidio che, inevitabilmente, trapela da ogni mia sillaba. È inutile, non credo di potere costituire un’equipe, se prima non avrò una sede più accogliente”. “Stai scherzando, vero?”, fece Giorgio con il sorrisino di chi ha già capito tutto, “il tuo è un falso problema. Come pensi che lavorassero i giovani nella Silicon Valley dentro i garage? E gli artisti nelle botteghe del rinascimento quanto spazio credi che avessero? Il tuo è un problema di ospitalità. Tu pensi che le persone si accolgano in un luogo. Da sempre, l’idea di dover condividere e suddividere uno spazio è stata la rovina dell’umanità. E, invece, le persone si sentono ospitate se vengono accolte nel tempo”. “Nel tempo?”, si meravigliò Lara. “Sì, nel tempo. Il tempo del fare. Facendo, c’è ospitalità, perché, facendo, non c’è niente da spartire, nessuno sta a guardare e ciascuno può essere accolto per dare il suo contributo. Prova a lasciar fare le persone che arrivano in redazione o si propongono per trovare pubblicità per il giornale, non avere fretta di vederle ‘brave’ come te. Tu pensi che siano loro a guardarti mentre lavori, ma magari sei tu che le guardi, anziché dar loro una mano”.
Lara era un po’ scossa dal bombardamento di Giorgio. Non si aspettava conforto e compresione, ma, ogni volta, si sorprendeva che lui fosse così indifferente ai suoi lamenti. Tuttavia, non poteva accettare quel giudizio su di lei e sulla sua presunzione di essere l’unica “brava” redattrice della città, stimava troppo Giorgio per non volerlo smentire. Da allora, quindi, non appena si presentava l’occasione, si metteva alla prova, lasciava che i candidati sbagliassero non una, ma dieci volte. Naturalmente, all’inizio, sembrava che il suo lavoro aumentasse ancora di più: oltre agli articoli che curava lei, spesso doveva rifare di sana pianta quelli che curavano loro. Ma – se l’era imposto – non doveva provare fastidio, i collaboratori erano in formazione e non andavano stigmatizzati, perché avevano fatto male o bene. Giorno per giorno, man mano che ciascun collaboratore assumeva la responsabilità di un compito, stava sempre più alla partita. Perché, un altro limite dell’ospitalità è prodotto da chi, per collaborare a un’impresa e alla sua riuscita, deve “sentirsi” della partita. Questo è il modo migliore per escludersi o per escludere, la via più breve per tagliar corto o grosso, non appena qualcosa non va e non funziona. Mentre, quel che non va e non funziona è indice di un funzionamento altro, inspiegabile.
Lara oggi si avvale del contributo di ventitré persone e ciascun giorno ascolta le sfumature e i dettagli che intervengono nel fare, non pretende che tutto vada e tutto funzioni perché non c’è nessun programma ideale da portare a termine, magari facendo fuori chi non si “sente” della partita. Il programma segue all’occorrenza, non viceversa. La sua equipe fa ciò che occorre fare, stando alla partita, e diviene pretesto per instaurare dispositivi di qualità. Per questo oggi, come ciascun giorno, in redazione c’è aria di festa, una festa in cui non viene mai meno la parola, in cui non c’è posto per i personalismi e i soggettivismi, o per i pettegolezzi, che sono la rovina dell’impresa. E anche oggi c’è un candidato al suo primo giorno: come gli altri, non può dire di sentirsi a casa, ma accolto nel tempo, il tempo del fare, e accolto nel dispositivo.