L'EMERGENZA DELLA PAROLA

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cifrematico, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nei quotidiani più diffusi, nel frasario politico, nel discorso mediatico, nelle ricette mediche, ricorre spesso il termine emergenza. Questo termine sembra il lasciapassare per qualsiasi passaggio all’azione, per qualsiasi intervento salvifico. Ci si dimentica che, nell’emergenza, le cose si dicono e che, quindi, l’emergenza è, prima di tutto, emergenza della parola. Ma in che modo l’emergenza non è da trattare socialmente o politicamente? L’intervento  cifrematico dinanzi all’emergenza ha due aspetti: dobbiamo chiederci qual è la ricerca da intraprendere, qual è l'intervento pulsionale, qual è il dispositivo pulsionale, il dispositivo rivoluzionario da instaurare; e, inoltre, come scrive Armando Verdiglione nel Master del cifrematico (Spirali, 2005), “L’altro intervento è per ciò che, dinanzi al contingente, all’occorrenza, è da fare. Quale faccenda? Quale azienda? Quale impresa?”. Eppure, troppo spesso, c’è chi è pronto a preoccuparsi dell’emergenza come qualcosa da gestire e da far rientrare in una standardizzazione della vita e, in particolare, nel luogo comune che non tollera chi non accetta la genealogia sociale e professionale, chi rischia e scommette in un itinerario culturale e artistico, nell’impresa intellettuale. Ognuno stia al suo posto e, se non sa starci, non si lamenti se poi viene ritenuto malato, diverso, pazzo incurabile o da tenere sotto controllo perché “potrebbe fare del male a se stesso e agli altri”. La cosiddetta malattia mentale – di cui lo psichiatra americano Thomas Szasz ha illustrato i presupposti ideologici e conformisti nel libro Il mito della malattia mentale (Spirali, 2005) – viene creata così, attraverso la rappresentazione dell’emergenza, e dà la forma e la base di qualsiasi malattia. Malato, dal latino male aptus, è chi non si adatta, non chi deve pagare lo scotto del cattivo adattamento. Perché mai il non adattamento dovrebbe sfociare in una patologia? E non ci sorprende che, secondo questo luogo comune, la peggiore malattia sia la morte. La vita così non sarebbe un viaggio verso la qualità, un viaggio in cui ciascuno diviene caso di qualità, ma una marcia funebre, una corsa a ostacoli per proteggersi dalla fine e rimandare il più possibile il momento fatale. Non a caso, Armando Verdiglione definisce la salute istanza di qualità. Quale salute viene cercata, infatti, da chi vive a partire dalla fine? Una salute come rimedio o come salvezza. Nel viaggio in direzione della qualità, le cose si dicono, dicendosi si fanno, facendosi si scrivono e, così, trovano il tempo che non finisce. Per questo l’emergenza non esige la soluzione, l’intervento salvifico che la faccia cessare, ma l’intervento intellettuale.
Quale progetto e quale programma possono essere enunciati se il tempo finisce? Certo, oggi, sono molti ad affermare che la medicina deve contribuire alla qualità della vita, anziché essere distribuita in pillole o in interventi più o meno invasivi. Ma la medicina scientifica, che si avvale della scienza della parola, la cifrematica, è da inventare ciascun giorno per ciascuno. Anziché fondare la sua pratica sui cosiddetti casi patologici, la medicina scientifica stabilisce il modo, i termini e la misura perché – con il disagio e non senza di esso – ciascuno instauri la salute, fino a divenire caso di qualità.
Nel luogo comune, la salute è stata intesa come salute mentale, distogliendo l’intellettualità dal viaggio: “Prima devo stare bene e poi posso occuparmi di cultura” ripete chi confonde la salute con la salvezza. Ecco perché si presume che il cosiddetto malato non abbia lo spirito per interessarsi alla cultura e all’arte. A torto. Instaurando un dispositivo di parola, anche chi ha avuto una diagnosi di malattia ha la chance di dare un contributo intellettuale alla partita che si gioca in quel dispositivo. Gli uomini, i giovani, le donne hanno l’avvenire dinanzi e incontrano interlocutori con cui instaurare dispositivi di parola, di comunicazione, dispositivi del fare, non maghi o eroi che propongano la salvezza da possibili malattie, difficoltà, disagi, disguidi.
La medicina scientifica non crede ai limiti soggettivi, sta qui la sua forza. La medicina scientifica instaura dispositivi in cui la direzione verso la qualità viene perseguita persino dai cosiddetti malati terminali. E, proprio a partire dalla pratica clinica della medicina scientifica, possiamo affermare che non solo non esiste la malattia mentale, ma non esiste neppure la malattia terminale. Ognuno è malato mentale e malato terminale, se il viaggio della vita ha come meta la morte. “Quanto tempo mi resta?” è la formulazione della paura di chi si considera mortale ed è l’alibi per poter pensare di fare quel che si vuole. Nessuna salute può trovare chi pensa di fare ciò che vuole – ritenendo di poter eludere la legge, l’etica e la clinica della parola, che sono invece ineludibili –, ma solo quella che Machiavelli chiamava pazzia, che neppure al principe era concessa, e che noi possiamo definire fantasma di padronanza. La salute incomincia dove il fantasma di padronanza sulla vita, sugli uomini, sulle donne, sulla repubblica, si dissipa. E non c’è più buono o cattivo adattamento.