GLI EDIFICI: LA MEMORIA DELLA CITTÀ

Qualifiche dell'autore: 
già assessore all'Urbanistica e Casa del Comune di Bologna

La prima cosa che mi ha impressionato del libro di Massimo Mola è il titolo, Come ascoltare gli edifici. Non mi stupisce che un lettore del “Resto del Carlino”, questa mattina, chieda al giornalista che cosa significhi questo titolo. Si ascolta chi parla, quindi, potremmo pensare a una metafora, a un modo di dire un po’ inconsueto, a una sorta di animismo: parlano gli alberi, le città e così via. Ma io penso che non si tratti di una metafora: l’idea che anche gli edifici parlino è da prendere alla lettera. Secondo un concetto filosofico ottocentesco, lo spirito degli uomini può oggettivarsi: non si manifesta solo attraverso le parole parlate, ma anche attraverso le istituzioni, gli ordinamenti giuridici, il lavoro, gli edifici, le città. Secondo questa idea, la città è un’oggettivazione dello spirito, perché ha in sé qualcosa di vivo. Se noi diamo per assunto che sia morta, diamo alla città una spazialità, un’estensione che non rende ragione di ciò che ha dentro.

Gli edifici non parlano nel senso della fonia, non hanno il flatus vocis, ma parlano attraverso la loro forma, le loro immagini e anche attraverso le lapidi, le epigrafi. Quante volte ho detto ai miei studenti di uscire dal chiuso delle aule scolastiche e guardare nella città le infinite lapidi, le epigrafi straordinarie, affisse non a caso: dietro a ciascuna iscrizione ci sono una storia e una memoria!

A Bologna, per esempio, alcune lapidi hanno scritto la storia di questa città. Ce n’è una nel Museo Medievale che non tutti conoscono: si chiama Aelia Lelia. Uno scrittore inglese del settecento dice che vale la pena di venire a Bologna solo per vederla. Carl Gustav Jung ha scritto settantacinque pagine su quella lapide, per non parlare di altri. In via Ugo Bassi, in un edificio privato che una volta era un albergo, c’è una lapide che racconta come Lord Byron, prima di partire per la Grecia e di morire combattendo per la libertà, soggiornasse a Bologna e cantasse la nostra città. Sfido chiunque a non commuoversi nel leggere la splendida lapide che si trova nel ghetto ebraico di Bologna: vi si racconta ciò che è accaduto nella deportazione, con parole di un’intensità straordinaria. Oppure, leggete in via Ugo Bassi la lapide dedicata alla famiglia Arcangeli: a Gaetano, il poeta, a Francesco, l’artista, a Cesare, musicista. L’ha scritta con cura e affetto la sorella Bianca che è ancora viva, ha novantadue anni e organizza ancora mostre. Questo delle lapidi sembra un patrimonio minore, spesso non letto, ma è stato scritto apposta perché parli. Potrei continuare a lungo a questo riguardo. È un capitolo bello e suggestivo che ci fa capire come gli edifici parlino anche da questo punto di vista, e come si possa coltivare l’amore per la città anche andando a vedere e a scoprire, non solo a mantenere e a ricostruire. Sono contento di avere inaugurato come assessore una lapide a Bologna, in via Borgonuovo, dove è nato Pier Paolo Pasolini. Tutti sapevano che era nato a Bologna, ma pochi sapevano dove. C’era molta incertezza tra gli studiosi, ma alla fine siamo stati assolutamente sicuri che il padre, che era un militare, alloggiava in via Borgonuovo, vicino alla caserma.

Un secondo problema che il libro di Massimo Mola pone è che occorre fare una distinzione fra urbanistica e architettura, considerate spesso nel linguaggio corrente sinonimi. L’urbanistica ha la pretesa di essere una scienza, una tecnica, un’attività che attiene al modo in cui una città si organizza; quindi, non sono in discussione l’estetica o la qualità dell’edificio, ma la struttura della città. Nell’esperienza di assessore, ho accumulato qualche diffidenza nei confronti dell’urbanistica, perché la pretesa di dare alla città una genesi, una natura, una direzione urbanistica è, intrinsecamente, un po’ autoritaria. Non ho mai conosciuto un urbanista, seppure bravo, che, in fondo, quando parla di piani urbanistici, di piani regolatori, non ragioni un po’ come gli ufficiali dell’esercito: qui mettiamo le carceri, qui gli uffici, qui facciamo le piazze; insomma, uno zoning, una zonizzazione delle funzioni urbane che, se applicata in modo rigoroso, produce tanti piccoli lager. Le città vere, le città vive hanno un’integrazione di funzioni che nessuno aveva pensato o progettato in modo esplicito e che non sono mai riconducibili a una “zona”. Gli urbanisti parlano per le città di indici di edificabilità. Poi scopriamo che, nel centro storico di Bologna, il rapporto tra edificato e area è il peggiore in assoluto che possa esistere, perché il centro presenta una quantità di costruito molto superiore a quello della periferia. Stando alle pretese della scienza urbanistica, dovrei concludere che il centro storico della città è pessimo e che le zone periferiche, avendo più spazio, sono molto migliori. Ma questa conclusione è paradossale. Mi chiedo se in città straordinarie come Siena, Assisi e altre ci sia mai stato un progettista che abbia fatto il piano regolatore, dei Romolo e Remo che abbiano tracciato un solco e incominciato a costruire le case sulla base di un piano fatto a tavolino. Io penso di no. La costruzione della città è uno sforzo collettivo che nasce dalla fantasia, dall’invenzione, dalle attività e (qui do pienamente ragione all’assessore Merola) nasce come individuazione degli spazi pubblici. Mi è piaciuta molto una metafora che ho sentito dal professor Sartogo che vinse uno dei concorsi di progettazione della zona universitaria del Lazzaretto: spiegando le città italiane del medioevo, Sartogo avanzava l’ipotesi che i progettisti non abbiano progettato gli edifici nel vuoto, ma, come nel negativo di una fotografia, la città medievale era un pieno in cui, scavando via via, venivano progettati le strade, le piazze, i luoghi pubblici. È il vuoto che si progetta nella struttura medioevale. Trovo il ragionamento molto suggestivo, non so se filologicamente possa essere corretto, ma dà l’idea che la città nasca dall’invenzione delle funzioni urbane.

Gli spazi pubblici sono sistemi di relazioni sociali. La città, prima di essere spazio, lo dico sopra tutto agli architetti, è relazione: il viale di una circonvallazione è sempre uno spazio, ma tra il tempo in cui ci si passava in carrozza e il tempo in cui ci passa la prostituzione c’è una bella differenza. Oggi, dire “Andare sui viali” risulta offensivo per qualcuno, non lo era in età napoleonica. L’urbanistica, nella sua analisi della città, deve capire che cosa scorre nelle vene della città, quindi, in questo senso, deve ascoltare la città.

Ma allora ci chiediamo che cosa sia l’architettura. Per il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, l’architettura è un’arte, ma, a differenza della musica, della pittura e di altre arti, è un’arte collettiva, perché un architetto fa i conti con i regolamenti, i materiali, le distanze, le norme, quindi, s’inserisce in un sistema di regole che coinvolgono altri soggetti. Per questo è un’arte collettiva. Gli architetti sono protagonisti, sicuramente in primo piano, ma, come diceva l’assessore Merola, vanno inseriti in contesti di invenzione urbana che siano discussi dalla società, che la società ne sia consapevole. In questo senso dico che è banale celebrare i Calatrava, i Bofill, i Gehry, i grandi architetti che hanno fatto le grandi opere. A Praga, l’edificio progettato da Gehry, che si chiama Ginger e Fred, ed è dedicato a Fellini, lo trovo intollerabile. Senza, per questo, nulla togliere a Gehry, che è un grande architetto, quel suo lavoro è estraneo alla identità di Praga: la grande firma non basta. In Italia, si usano sistematicamente i grandi nomi dell’architettura per fare enormi brutture: da Punta Perrotta, demolito di recente, allo Zen di Palermo, dietro ci sono le firme di grandi architetti. E non solo lì. Architetti di chiara fama si prestano, a volte, a operazioni bassamente mercantili e speculative.

Ci sono problemi specifici attorno alla conservazione dei centri storici. Per parlare di conservazione dei centri storici dobbiamo uscire dalla logica del presente. Il centro storico, se deve essere un museo all’aperto, è morto. Il centro storico è tale se è vivo, se la gente ci abita. Ma se la gente ci abita non può vivere in un museo.

Quindi, il fatto che nel centro storico si facciano parcheggi, si aprano negozi, si creino nuovi spazi è un modo con cui la città continua a essere viva. Qui a Bologna domina una cultura conservativa del centro storico che canta una sorta di inno a se stessa: per esempio, il muro sul viale di circonvallazione che ci toglie la visione di San Michele in Bosco merita di essere conservato? Muri di caserme, nati per ragioni militari, tolgono, in quella zona della città, una meravigliosa veduta su quella specie di acropoli che è San Michele in Bosco. Una città viva ha bisogno di modificarsi, non esiste un punto X della sua storia nel quale scatta la pienezza della forma artistica da salvaguardare per il futuro.

Per concludere, vorrei mettere l’accento sulla qualità del decoro urbano: la città parla, bisogna ascoltare gli edifici, ma i graffitisti, non li capisco proprio. Scrivono frasi con segni indecifrabili, terribilmente uniformi, che imperversano sopra tutto nelle zone universitarie. Forse non sono io capace di leggere le scritte sui muri, ma non le distinguo molto dallo sporco, dalle feci dei cani e da tutto ciò che non dà decoro alla città.

E questo non è un problema solo delle amministrazioni ma anche dei cittadini, che vi abitano e della loro cultura.