LA SCIENZA DELLA VITA

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cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Quel che, da Aristotele ai giorni nostri, è stata chiamata scienza è piuttosto un discorso sulla scienza, costituito da un susseguirsi di rappresentazioni, modelli interpretativi, paradigmi, prodotti da una miriade di discipline il cui numero è in continuo aumento. Questo discorso doveva fare presa sulla realtà, prendere le cose in un sistema sempre più unitario e totalizzante, puntando a una comprensione generalizzata. L’etimo di scienza rimanda alla radice ski, tagliare, dividere, ma questa divisione è un frazionamento: questo discorso deve comprendere prima dividendo in unità minime, poi ricomponendo e riunificando i risultati. Il risultato è la scienza come è presentata oggi, un frammentarismo reale, che va verso la disciplinarietà in nome di una perfezione ideale: scienza perfetta, utopia tecnologica, asservita al potere, come scrive Lucien Sfez, nel suo libro Tecnica e ideologia. Una questione di potere (Spirali), discusso in questo numero con Marcello Pecchioli. Scienza che, quanto più vuol perfezionare la vita, anche attraverso il discorso medico, tanto più resta nella logica della morte.

Eppure, già Leonardo da Vinci aveva inventato la scienza come esperienza, non come sapere sull’esperienza. E Giambattista Vico, contro Cartesio, aveva indicato, nella Scienza Nuova, che questa scienza poggia sulla parola, non sulle idee o sulle rappresentazioni. Con la cifrematica di Armando Verdiglione e dell’Università internazionale del secondo rinascimento, la scienza non è la presa sulle cose o sulle parole, è la parola come presa, è la parola stessa. E, dopo Sigmund Freud, non è sottoponibile al principio di non contraddizione, al principio d’identità e al principio del terzo escluso, cioè di ragione sufficiente, come nel discorso scientifico. È scienza non ontologica, perché l’esperienza della parola non può escludere né l’Altro né il tempo come taglio che non finisce. Come ha indicato Armando Verdiglione, la divisione nella parola non è più il frazionamento delle cose, ma l’assenza di unificazione, di totalizzazione, perché è costituita dal tempo come taglio inalgebrico, come divisione incolmabile delle cose che si dicono e dicendosi si fanno e facendosi si scrivono.

Questa divisione porta a un’integrazione dei vari aspetti dell’esperienza, non alla disciplinarietà e allo specialismo. Lo prova anche la ricerca di Marco Maiocchi, attraverso l’elaborazione delle “archestesie”, sensazioni che vanno oltre le percezioni degli organi di competenza. Qui la stessa analogia non è un criterio unificante, ma indica quanto la scienza comporti l’abolizione del criterio di competenza e di pertinenza, dunque ottenga risultati per via di arte e d’invenzione. L’elaborazione di Maiocchi prova anche quanto l’invenzione scientifica non sia solo deduttiva o induttiva: giunge a esigere l’abduzione, l’adiacenza, l’intervento dell’Altro irrappresentabile e inimmaginabile. Al di là dell’immaginazione porta la combinazione tra arte e scienza da cui sorge l’atto artistico di Jean-Marc Philippe, il progetto KEO, un satellite che tra 50.000 anni consegnerà ai nostri posteri sulla terra milioni di messaggi degli attuali abitanti del pianeta.

L’archestesia annuncia un’altra teoria delle sensazioni, indicando in particolare la struttura di un’estetica della parola, non romantica, cioè senza archetipologia. Prosegue la lezione di Leonardo, ma anche di Giacomo Leopardi, per cui la scienza sta alla base dell’arte, non vi si oppone come volevano romanticismo e idealismo. In quanto presa della parola, e non presa sulla parola da parte di un soggetto, con la cifrematica la scienza impedisce che l’arte sia frutto di possessione o di padronanza, che l’artista sia il folle o il demiurgo. Nell’esperienza della parola originaria l’arte non finisce, come voleva Hegel, perché il suo cammino è un aspetto dell’itinerario, dell’infinito del tempo, della divisione non frazionaria introdotta dalla scienza. Per le virtù del tempo, per le virtù dell’istante, l’arte non è sottoponibile all’idea di evoluzione e di progresso, né può storicizzarsi o localizzarsi. Come potrebbe altrimenti l’opera di Alfonso Frasnedi entrare nel testo poetico del poeta cinese Shen Dali e nella lettura di Alessandro Atti? Come potrebbero gli ideogrammi giapponesi di cui parla Masaomi Unagami comunicare la loro tensione linguistica a occidentali che ne ignorano la traduzione?

I testi dei registi ospitati in questo numero sottolineano che l’arte è articolazione delle cose lungo il bordo della memoria, e dissipa così i ricordi e il loro peso. Come per Radu Mihaileanu, con l’arte la vicenda di ciascuno non è più personale, ma offre il materiale per l’opera. E per Martin Scorsese il mito della terra d’origine della famiglia diviene il terreno da cui trarre la linfa della sua ricerca e formazione. Dalla traccia alla saga, la famiglia offre un apporto perché le cose che si dicono si facciano e si scrivano, e si valorizzino. In questo farsi, la poesia, (dal greco poiein, fare), la produzione. Senza rispetto dell’unità di tempo e di luogo come nel racconto del grande drammaturgo Fernando Arrabal.

Cultura e arte del fare, la poesia offre all’arte quell’istanza pragmatica che esclude che l’arte si spiritualizzi, dunque finisca. Il poeta Gregorio Scalise legge, con Shen Dali e Dong Chung, l’arte di Ferdinando Ambrosino e di Andrej Rublëv, magari avvalendosi della lezione del poeta russo Aleksandr Kushner? La poesia con il suo modo, il tempo, contribuisce alla qualità dell’opera d’arte. Armando Verdiglione, già nel 1985, scriveva che la poesia si fonda sulla scienza. Lo attesta con la sua opera, e con la sua vita, il medico e poeta Giorgio Antonucci: il discorso psichiatrico, dice Antonucci, non è una scienza, ma un pregiudizio, proprio perché con manicomi e psicofarmaci si oppone alla libertà della parola, che è la libertà della scienza stessa, e di ciascuno di noi.

Scienza senza più discorso scientifico, la cifrematica scommette per una scienza della parola con cui ciascuno divenga caso di qualità e non di morte.