LA PAROLA, NON LO PSICOFARMACO

Qualifiche dell'autore: 
medico, saggista, poeta, già direttore del Reparto Autogestito dell'Istituto "Lolli" di Imola

Intervista di Sergio Dalla Val

Viene pubblicato in questi giorni il suo ultimo libro, Diario dal manicomio (Spirali). Di che cosa si tratta?

Ho cercato di ricostruire i miei ventitre anni di lavoro in manicomio, dall’agosto 1973 al settembre 1996. Sono stati anni in cui la mia vita si è svolta in relazione a due manicomi: il primo in cui sono andato, l’Osservanza, era il manicomio di tutto il territorio della Romagna, mentre il secondo, il Lolli, era il manicomio della provincia di Bologna, quello a cui facevano riferimento tutte le aree periferiche intorno a Bologna. Quando ho incominciato all’Osservanza, ho lavorato con le persone ritenute più difficili dai medici che mi avevano preceduto, le persone del “Reparto donne agitate”, dove poi ho proseguito.

Nel libro racconto quello che ho fatto dai primi giorni fino agli ultimi, mantenendo sempre costante il pensiero che guidava tutte le mie iniziative e tenendo presente le contraddizioni che c’erano a tutti i livelli. Basti dire che ho portato avanti questo lavoro da solo – perché Cotti, che mi aveva chiamato, non mi ha mai aiutato se non in cose molto marginali – e, naturalmente, contro tutti. Le infermiere e gli infermieri erano abituati alle porte chiuse e alle camicie di forza, perché era quello che ordinavano i medici: le porte chiuse e le camicie di forza. Venivano usati psicofarmaci di tutti i tipi, le persone non avevano alcuna autonomia, anzi, più precisamente, possiamo dire che non esistevano come persone, perché nessuno si era mai preoccupato di ascoltare il loro pensiero. Il grande paradosso è che l’istituzione, secondo gli psichiatri, dovrebbe servire a modificare il pensiero – cosa negativa ma pur sempre il loro proposito – e invece il pensiero delle persone rinchiuse lì dentro non esiste, perché nessuno lo ascolta più e loro devono tenerselo dentro. Io ho incominciato a incontrare queste persone e ad avere una comunicazione con loro, a introdurre la parola, il dialogo, la dialettica, il pensiero con cui si costruiscono insieme cose nuove e, partendo dalla completa costrizione, si costruisce la libertà. Per questo ho dovuto mettermi contro gli infermieri, contro i medici, contro gli amministratori, contro i partiti da cui gli amministratori venivano e contro la magistratura.

Oggi molti potrebbero dire che il manicomio come istituzione è stato abolito. Lei cosa dice?

Io posso fare riferimento semplicemente alla realtà. Innanzitutto,  il manicomio non è un edificio, vecchio o nuovo che sia, ma una possibilità che esiste in una società: la possibilità giuridica di prendere una persona, che non la pensa come vogliamo noi, di prenderla con la forza e portarla da qualche parte per modificare il suo pensiero, come dicevo prima. Naturalmente, questa persona si rifiuta, infatti, viene presa con la forza, portata da qualche parte e trattenuta con la forza. Allora, naturalmente, le porte devono essere chiuse e, se la persona si ribella e si arrabbia, o le si fa una puntura per addormentarla o le si mette una camicia di forza per immobilizzarla. Partendo dal criterio che è permesso dalla legge prendere le persone e rinchiuderle, il manicomio c’è e come. Che poi sia nelle vecchie istituzioni fondate tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 o che sia nei reparti psichiatrici degli ospedali civili è un dato assolutamente esteriore. Per chiarire meglio la cosa dirò di più: non solo c’è una legge che permette, con un certificato proponente, uno che conferma e il sindaco che firma, di prendere una persona e di portarla da qualche parte, ma spesso lo si fa anche senza questi certificati, saltando la legge, perché magari ci sono i genitori che non vanno d’accordo con il figlio, o il marito che non va d’accordo con la moglie, o i vicini che si lamentano dell’inquilino della porta accanto e chiedono che si provveda rapidamente al ricovero.

Allora, come ho constatato di recente a Firenze, ci sono persone che vengono ricoverate senza i certificati, che invece vengono presentati in un secondo momento. Cosa per cui ho protestato e ho anche cercato di smuovere la legge. La cosa è gravissima, non solo perché, senza i certificati, prendere una persona e portarla da qualche parte, in assenza di reato, corrisponde a un sequestro di persona, ma anche perché questa persona, come diceva David Cooper, da quel momento è un malato di mente, cambia la sua condizione sociale.

Oltre ai libri che riguardano il suo lavoro, lei ha scritto un libro di poesie La nave del paradiso (Spirali). Dunque, ha un’attività di poeta e di scrittore che però non sembra soltanto, per dir così, un’alternativa, ma che forse fa parte integrante del suo modo di lavorare.

Certamente. In questi anni nel manicomio, come cerco di raccontare, ho passato ore e ore durante il giorno e a volte nottate intere in dialogo con ciascuna persona. Ricordo che il primo mese non lasciai assolutamente il reparto, non tornai neanche a Firenze dove ho continuato ad abitare, stavo notte e giorno lì, perché dovevo togliere le camicie di forza, aprire le porte, ma prima di tutto dovevo parlare con le persone per spiegare loro che cosa stesse succedendo.

Una volta tolta la camicia di forza, non potevo lasciare una persona inquieta, con gli infermieri che pensavano di farle la puntura, allora ci trascorrevo la notte, parlando, discutendo, oppure a volte anche stando seduto in silenzio per cercare di comunicare.

Comunicare con le persone è un fatto singolare, che varia da individuo a individuo, e non c’è nessuna scienza che possa esprimere il rapporto da individuo a individuo. Il rapporto da individuo a individuo si esprime con la parola e la parola, se è poesia, rende molto meglio la profondità di questa comunicazione.