UN'ARCHITETTURA INTERDISCIPLINARE

Qualifiche dell'autore: 
architetto, designer, docente al Politecnico di Milano

Il termine archestesie è stato da noi, autori di Archestesie, inventato in seguito a sperimentazioni e applicazioni delle teorie sviluppate presso il Politecnico di Milano, nei laboratori e nei corsi di cui siamo stati incaricati dal 1999.

Il primo fenomeno che ci ha portato a occuparci in modo così approfondito delle relazioni tra i sensi e, poi, delle relazioni in sé, è stato il fenomeno dell’acusmetria. Quindi, l’archestesia è una conseguenza allargata, per dir così, dell’invenzione dell’acusmetria, anche se restano ambiti distinti. Se facciamo un test su che cosa si sa oggi dell’acusmetria ci sono persone in grado di dare quanto meno una risposta intuitiva intorno al rapporto tra forma e suono, misurabile con le regole acusmetriche; mentre il termine archestesia è ancora da divulgare.

In Archestesie ho riportato vari progetti, fra cui due appartamenti, un asilo progettato con altri due professionisti, la ristrutturazione di un edificio, un progetto di concorso per un villaggio importante, Crespi d’Adda, e un progetto per la costruzione di case in Centro America con l’utilizzo di tecniche locali. In questo libro ho cercato di tradurre l’esperienza personale chiedendomi quali potessero essere le percezioni relazionali che portano a strutturare un progetto. In altri termini, quali variabili incidono nel porre in relazione materiali, volumi, suoni che si utilizzano nella progettazione. Questo libro ha comportato un’esperienza singolare, perché non avevo ancora scritto delle “mie” architetture sotto questo profilo, mi sono obbligato a farlo ed è stata un’esperienza introspettiva di grande interesse, che ha evidenziato processi remoti, a volte mai svelati.

Tornando all’archestesia, penso che l’ambito di sviluppo della materia comporti la speranza di capire un po’ di più sul “funzionamento” degli stimoli sensoriali, traendo vantaggio dal contributo di varie competenze. In questo libro abbiamo più che altro formalizzato ipotesi, ci siamo posti delle domande e ci siamo accorti che l’interesse verso quel che d’ineffabile sottende alla percezione e alla scelta è un problema inerente alle relazioni complesse; un’ipotesi strutturale è descritta nel primo capitolo di Marco Maiocchi. Il mio contributo è stato possibile descrivendo la materia del fare in architettura, esprimendo ciò che ha portato a certe decisioni scartandone altre, elencando una serie di relazioni tra gli oggetti che plasmano uno spazio e gli abitatori dello spazio stesso.

Per quanto concerne l’architettura liquida e la contemporaneità della trasmissione dei linguaggi, la tendenza pare ancora orientarsi verso una frammentazione dei saperi. Questo porta senz’altro a risultati di enorme valore sperimentale. Tuttavia, il mio interesse, sin da quando ero studente, è sempre stato rivolto alle ricadute generali delle specializzazioni, tanto che poi mi sono trovato a occuparmi di relazioni e, anche nello svolgimento della professione, ho cercato di costituire gruppi di lavoro interdisciplinari. Penso che vada molto bene che i risultati delle cosiddette architetture liquide e delle sperimentazioni informatiche siano applicati all’architettura. Però la sintesi di queste sperimentazioni, molto spesso, non è nelle mani di chi se ne occupa, bensì in quelle dei grandi gruppi di progettazione che, di volta in volta, utilizzano questi esperimenti per calarli poi in un progetto di grande respiro. Oggi, per fare grandi progetti occorrono enormi capitali e il rischio della volgare spettacolarizzazione autoreferenziale è sempre presente. Indubbiamente, in una realtà complessa, la ricerca dello specialista non può che essere inquadrata in una grande regia. E non mi riferisco a una persona a capo di una struttura, ma a un’equipe allargata di decisori che sono architetti ma non solo. Tanti architetti molto noti oggi sono di formazione matematica, filosofica, artistica, magari non hanno neanche la laurea in architettura; molti dei nomi importanti a livello internazionale lavorano con gruppi di oltre cento persone.

Per concludere, vorrei citare l’esempio, apparentemente semplicistico, delle “case per vacanza in Honduras”, di cui parlo nel libro. Il progetto iniziale, redatto in Italia usufruendo di ampia documentazione, utilizzava strutture portanti in cemento armato. Dopo otto giorni di permanenza sull’isola di Roatan per il sopralluogo, mi sono accorto che il cemento armato, con le materie prime locali e quel clima, si sarebbe sgretolato dopo un anno. Di conseguenza, ho riprogettato gli edifici utilizzando prevalentemente legno locale, e tale tecnica ha influito radicalmente sulla forma delle case: le forme architettoniche del progetto definitivo sono completamente diverse da quelle iniziali. È un caso di scelta obbligata, si dirà. Mica tanto, a giudicare dalle decine di villette a schiera costruite su quell’isola e che stanno deperendo a vista d’occhio. Perché sono state costruite in cemento armato? Perché altri progettisti hanno scelto di imporre una tecnica così “poco archestetica”?

Ecco, l’apporto pubblicato nel libro cerca una riflessione sulle relazioni tra gli elementi acquisiti nell’esperienza complessiva in sito: la ri-progettazione delle case non è certo conseguenza solo del fatto di utilizzare un materiale più idoneo, ma anche e soprattutto figlia delle esperienze di vita descritte nelle pagine di Archestesie.