IL VALORE DELL'ITALIA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Quando si parla del marchio, come nel libro di Ferdinando Cionti Made in Italy (Spirali), che offre lo spunto per il dibattito di questo numero, sembra che si tratti di un problema soltanto per le aziende o le Camere di commercio. Eppure, già Naomi Klein, con il suo best-seller mondiale, No logo, aveva evidenziato che la questione del marchio ha implicazioni economiche, finanziarie, politiche e culturali che, nell’era della globalizzazione, investono l’intero pianeta con importanti conseguenze per ciascuno. 

Perché c’è indifferenza, se non timore, attorno al marchio? Il termine marchio rimanda al verbo marchiare: si marchiavano gli schiavi, si marchiava l’infame, e il marchio restava per sempre. Una definizione del valore che sorga improvvisa e resti per sempre viene considerata con sospetto, perché è presunta fissare in modo indelebile.

Inoltre, il marchio si estende, supera i limiti dell’inventore o del prodotto con cui è sorto. Un marchio diventato famoso per la qualità dell’azienda che lo ha lanciato può, successivamente, essere utilizzato per vendere un altro prodotto, magari non eccellente, ma che trae valore dalla forza del marchio. Questo indica che il marchio non ha fine, tanto che può sfuggire anche a chi l’ha creato, quando viene venduta l’azienda, e può valere più dell’azienda stessa. Per questo sorge il sospetto diabolico attorno al marchio: il marchio crea valore al di là di chi l’ha inventato, al di là del prodotto. Sembra vivere di vita propria. Come scrive Ferdinando Cionti, è una merce che, proprio perché svuota se stessa di contenuti, può inglobarli tutti, ovvero diviene come un re Mida che trasforma in oro tutto ciò che tocca. Il marchio sottolinea che il valore non è ancorato a ciò che sta sotto, a una sostanza o a un soggetto, ma trova la sua condizione nell’astrazione, non nell’origine. 

Questo procedimento del marchio è prossimo a quello del denaro secondo le teorie dell’economia: come il marchio, il denaro è una merce, tant’è che può essere comprato e venduto, che non ha un valore intrinseco, ma condiziona il valore della circolazione delle merci. Allora la paura e il sospetto che il logo mette in gioco sono prossimi alla paura e al sospetto suscitati dal denaro. Potremmo dire che il logo è il denaro della globalizzazione. Da sempre coloro che hanno criticato il denaro e attaccato il capitalismo ora denunciano il logo perché lo considerano strumento del capitale, con lo stesso timore che aveva Lutero quando definiva il denaro “sterco del diavolo”. Il rifiuto del marchio è il rifiuto del capitale, del profitto, del valore. 

Qual è il valore dell’Italia? Il libro Made in Italy è la storia del capitalismo come storia del made in Italy. Sostiene che il capitalismo stesso è made in Italy, non sorge dall’etica protestante, così moralista contro il denaro e il profitto finanziario, definito usura.  Proviene dalla bottega rinascimentale, dall’artigiano, che è a un tempo artista e imprenditore, come nota Graziano Benazzi in questo numero. Ha  la sua base nei prodotti  finanziari inventati in Italia, attraverso i quali il valore si sgancia dal riferimento a un prodotto concreto, come accade con il logo. Non è il prodotto, infatti, a  imporre il valore al logo, ma è il logo che impone il valore alla merce prodotta e al mercato, valore che può aumentare ancora più del mercato che doveva essere il suo terreno di coltura. C’è, quindi, una connessione tra i due libri di Ferdinando Cionti Made in Italy e Sì, logo. Made in Italy non indica qui il marchio di una serie di prodotti, ma è il logo stesso del capitale, cioè del libero mercato, della libertà dell’impresa e della vendita, che con il rinascimento si svincolano dai criteri morali e religiosi e dalla sudditanza nei confronti del potere politico.

La libertà del capitale è criticata e temuta, soprattutto ora che i governi non riescono più a gestire le multinazionali e la cosiddetta “massa finanziaria” sparsa nel pianeta, a cui è attribuita la causa della crisi presente. La crisi è il prezzo della cupidigia, intitolava il “Time” un recente articolo. Ma così resta nell’ideologia secondo cui la crisi richiederebbe un ritorno all’economia e alla finanza concrete, sostanziali, in una demonizzazione della formalizzazione, dell’astrazione, dell’intellettualità. Mai come ora occorrono prodotti e procedure intellettuali che, come nota Carlo Sini, traggano dalla memoria come cultura e dalla memoria come arte, linfa per l’innovazione. Come nota Davide Passoni in questo numero, il made in Italy non designa un territorio, ma una combinazione di cultura e industria, scienza e finanza, arte e invenzione che si rivolge al valore intellettuale, alla cifra come qualità.

La cifra dell’Italia è il capitale intellettuale. Un  capitale che non nasce, come credeva Marx, da un’accumulazione originaria, dunque da una violenza sociale. È il prodotto della mano intellettuale, annunciata dalla combinazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale attuata dalla bottega di Leonardo. Da questa bottega nasce il logo, non dalle multinazionali. Per questo, come nota Enrico Vento in questo numero, il marchio è incompatibile con la standardizzazione e con le economie di scala. Il logo è indice di un capitale intellettuale ovvero di un processo di valorizzazione, in cui il valore non viene dato dal tempo impiegato per produrre o da un capitale di partenza. E, per questo, con il marchio la produzione di valore non toglie nulla, è acquisizione in qualità e restituzione in cifra. Il marchio non marchia, perché comporta che la scrittura dell’esperienza giunga alla perennità del valore, non alla permanenza dell’identità.