L'ITALIA, L'INDUSTRIA, IL PRINCIPE

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Brainworker, scienziato della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

"Non dei pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella tua industria”. Con queste parole, nel 1300, il condottiero Castruccio Castracani degli Antelminelli, ormai anziano, si congedava dal giovane allievo Paolo Guinigi. Questo testo giunge a noi con la biografia di Castruccio Castracani che Niccolò Machiavelli scrisse nel 1520, ispirato dalle opere del capitano virtuoso che fu “in ogni fortuna principe”. Con Niccolò Machiavelli, entra in scena un nuovo principe, ben lontano dall’ideologia sostanzialista feudale, ricattata dal possesso delle cose, e s’aprono nuove città con infinite strade che esigono un nuovo capitale. Così, con il rinascimento delle arti e delle invenzioni, nasce in Italia il made in Italy, già molto prima che divenga marchio. 

Ferdinando Cionti nota nel libro Made in Italy (Spirali) come mercanti e artigiani, pur non avendo capitali “di partenza”, trovino un nuovo capitale viaggiando per la città e cita Carlo Sini che, nel libro La libertà, la finanza, la comunicazione (Spirali), precisa come il primo modo dello scambio avvenga con la parola, senza cui non c’è commercio e con cui incomincia un’altra economia. Il rinascimento inventa il viaggio, che è narrativo: le cose si fanno, viaggiando, perché si dicono. Questo viaggio si struttura narrando e facendo secondo l’occorrenza, secondo la logica particolare a ciascuno, giungendo al valore, che dissipa l’identità delle cose, e procedendo per integrazione, senza settarismi, senza sistemi, senza moralismi. Sta qui il processo intellettuale, proprio all’impresa e alla ricerca, proprio al racconto. Sta qui l’industria e le sue due facce: l’arte e l’invenzione, nell’integrazione tra la mano e il cervello. Fino alla mano intellettuale, annunciata dal rinascimento, nelle sue botteghe artigiane, italiane. 

Con la lezione del “made in Italy”, il prodotto industriale racconta per la prima volta al pianeta un altro valore delle cose, sottratto alla logica algebrica che lo significa nella somma di forza-lavoro, tempo e organizzazione impiegati per la costruzione e la diffusione della merce. Perché, come nota acutamente Ferdinando Cionti, “valorizzare non è aggiungere”. Il valore che l’Italia annuncia al pianeta attiene propriamente a ciò che resta, ma si tratta di un resto che punta all’astrazione, di un resto non sostanziale. Resto materiale, che, come per la vicenda dell’industria, non è da intendere come riduzione dell’intero a una parte, ma come la produzione di qualcosa: rende, infatti, ciò che ancora non è, al colmo dell’ironia e dell’audacia. Soprattutto nell’impresa, si tratta allora di mettere in gioco un capitale nuovo, un capitale che s’inventa “facendo”, incontrando, discutendo, senza pregiudizi. Si tratta di un capitale che s’inventa per astrazione. Non è un caso che le banche nascano in Italia e che in Italia s’inventi la lettera di cambio, che scambia qualcosa di reale, corrente, attuale, con qualcosa che ancora non è, ma che avverrà. 

Il primo atto culturale avviene con il commercio, che si struttura lungo l’equivoco, su uno scambio inquantificabile. Nota infatti Ferdinando Cionti che “il valore del bene non è determinato e fisso come la cosa – ammesso e non concesso che la cosa sia determinata e fissa –, in quanto il bisogno umano non è un’entità determinabile una volta per tutti, ma una volta per ciascuno, in occasione di ciascuno scambio”. Perché, prosegue l’Autore, “la merce vale quanto chiunque altro vuole dare in cambio”.

Impossibile non tenere conto allora del fatto che nell’integrazione fra cultura e impresa si trovi un altro valore: il capitale intellettuale, un valore non sostanziale – come indica il marchio – che segue a un processo di astrazione, perciò pragmatico perché costituito lungo l’esperienza e la sua memoria. Questo capitale non è soggetto a crisi, non è soggetto al ricatto della perdita perché non è sostanziale, ma pragmatico. Il valore non è mai in crisi. La crisi che oggi si rappresenta è la crisi della sostanza. Semmai, quello che sta avvenendo in ambito economico-finanziario indica che la crisi esige l’affinamento dell’astrazione, lungo il processo di valorizzazione della memoria. La questione dei titoli tossici, che nessuno vede e sa dove siano andati a finire è stata rappresentata come segno dell’astrazione intesa come un male e contrapposta alla concretezza, per cui da più parti si auspica un “ritorno” all’economia reale, dove si scambiano le cose che si vedono. Invece, mai come in questo momento, si tratta di puntare al valore insostanziale, al capitale intellettuale e al marchio, per non azzerare la civiltà, perché l’impresa di ciascuno si avvalga ciascun giorno del disagio e della crisi per crescere, costruire e inventare. Non a caso, è proprio in alcuni momenti di crisi che nella scienza, nella storia, come nell’impresa sono avvenute invenzioni straordinarie. Crisi, dunque, come occasione che trae a un altro profitto: la qualità, la salute, la cifra dell’impresa. Di questo profitto s’interessa il brainworker, lavoratore di cervello che si avvale del dispositivo intellettuale, dispositivo di direzione che, per costruire e vendere, non si basa su un presunto bisogno sostanziale. Il brainworker, dando un apporto all’avvenire dell’impresa, ne coglie il valore assoluto, un valore che non è soggetto alla crisi. Il brainworker s’interessa alla valorizzazione della memoria, senza cui non c’è vendita. La riuscita allora è questione di cervello, di strategia per chi si trova nel rischio d’impresa e quindi si trova a fare avvalendosi dell’industria propria della parola.

**Il testo di Caterina Giannelli è tratto dal suo intervento al convegno dal titolo Il logo, il made in Italy e il capitale intellettuale per la riuscita (Sala dello Zodiaco, Palazzo della Provincia di Bologna, 16 aprile 2009)