IL MARCHIO, IL BENE DI MAGGIOR VALORE

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giurista e giornalista

Nonostante il marchio, in quanto argomento di natura tecnico-giuridica, possa sembrare piuttosto noioso, il libro di Naomi Klein, No logo – dove troviamo un’obiezione radicale al marchio –, gli ha fatto assumere una popolarità e un valore tali da suscitare molto interesse, soprattutto per le sue implicazioni con la globalizzazione. Si può essere favorevoli o meno, ma non si può prescindere dal marchio, che è uno degli strumenti fondamentali della globalizzazione, ed è anche appassionante capire come una semplice parola possa assumere sia un valore economico enorme sia un’importanza fondamentale nella cultura e nella società.

Allora cercherò di riassumere gli ultimissimi sviluppi di questo antico istituto che nell’ultimo secolo è l’istituto giuridico più interessante e ha suscitato molte polemiche sia perché è in continua formazione sia perché ha un valore economico un tempo inimmaginabile.

Incominciamo dalla sua funzione distintiva. Il marchio è prima di tutto una creazione degli imprenditori e, soltanto in seguito, i giuristi sono riusciti a capire ciò che era accaduto nei diversi passaggi in cui gli imprenditori avevano plasmato questo strumento. Nel marchio, la legge difende una funzione distintiva, che originariamente è quella che consente di avvertire le differenze che intercorrono fra il prodotto o la merce che esso contraddistingue e gli altri prodotti o merci simili offerti sul mercato, senza un marchio o con un marchio diverso. Più in particolare, poiché col termine prodotto o merce non s’intende un pezzo singolo bensì una serie di unità, il marchio dovrà fare avvertire, da un lato, gli elementi di identità, o assenze di differenze, che collegano le unità della serie che costituisce il prodotto e, dall’altro, gli elementi di differenza che li separano dai prodotti che non portano quel marchio. Tuttavia, vedremo che questo concetto si è dovuto necessariamente modificare e in modo decisivo. Per capire come, partiamo dal marchio collettivo.

Questo (per esempio “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena”) è caratterizzato da due elementi: il primo è quello di garantire la qualità del prodotto, il secondo è quello di non appartenere a chi lo usa ma a un terzo soggetto, per esempio un consorzio, il quale se ne fa garante e lo concede a tutti coloro che, rispettando i criteri stabiliti, hanno diritto a usarlo. Ma allora il marchio collettivo in realtà non distingue qualcosa di materiale, e cioè le unità di prodotto di cui abbiamo parlato a proposito del concetto di distinzione, ma quegli elementi che sono comuni a tutte le unità e che le caratterizzano. Quindi, pur restando nei limiti della definizione iniziale di distinzione, risulta che il prodotto non è qualcosa di materiale che si identifica nelle varie unità di prodotto, ma qualcosa di ideale.

Con il marchio individuale succede qualcosa che è quasi incomprensibile, perché esso non significa, anzi, non deve significare nulla: non può essere il nome del genere del prodotto che viene identificato (per esempio “vestiti”) – altrimenti sarebbe una definizione comune o una parola comune e nessuno ha diritto di appropriarsi di una parola comune – e non può garantire la qualità, perché solo il marchio collettivo può garantirla. Tra l’altro non esiste un disciplinare di riferimento per confrontare le unità di prodotto contrassegnate dal marchio individuale, che non può nemmeno identificare un prodotto nuovo o esteticamente pregevole, perché un prodotto nuovo è frutto di un’invenzione, ma l’invenzione va brevettata con relativa concessione di un’esclusiva per un periodo limitato di vent’anni, mentre il marchio è concesso per dieci anni ma è rinnovabile all’infinito.

In pratica, il marchio non ha fine, è l’elisir di lunga vita. Il passaggio dalla ditta individuale alla società doveva garantire la vita dell’impresa al di là della morte del suo titolare: il marchio supera anche la vita dell’impresa, che può fallire – come nel caso Parmalat –, ma i prodotti sono ancora venduti con il relativo marchio.

Ma c’è di più: da sempre sono possibili i cambiamenti del prodotto, nonostante continui ad essere contrassegnato dallo stesso marchio. Quindi, anche se di fatto si verificasse una identificazione molto generica e molto discutibile tra marchio e prodotto, questa neppure potrebbe essere presa in considerazione perché il titolare del marchio può cambiare il prodotto in qualsiasi momento. Anzi, con il marchio individuale è possibile fare una cosa che con il marchio collettivo sarebbe impossibile: di un marchio collettivo, per esempio Parmigiano Reggiano, un altro formaggio non può assolutamente fregiarsi, mentre il marchio individuale consente non solo di cambiare prodotto nello stesso genere ma anche di contrassegnare con lo stesso marchio generi affini, prodotti che non si confonderebbero mai, come una cintura e una borsa. Allora è chiaro che il marchio non significa assolutamente nulla, eppure è il bene immateriale di gran lunga di maggior valore, specialmente da mezzo secolo a questa parte, rispetto ai beni materiali.

A questo punto ci chiediamo se il marchio sia ancora un segno distintivo, se distingua ancora qualcosa e in che modo. Per capirlo pensiamo a due squadre di calcio. Quando vogliamo formare due squadre di calcio, la prima cosa che facciamo è fare indossare a una la maglietta rossa e all’altra la maglietta azzurra. Anche se non conosciamo i componenti delle singole squadre, li distinguiamo nettamente dal colore della maglietta. Quindi, il solo fatto di applicare sulle unità di prodotto un marchio distingue quelle unità di prodotto da tutte le altre che non ce l’hanno. Questo è sufficiente? Diciamo che la differenza tra il marchio collettivo e il marchio individuale è la differenza che passa tra un quadro figurativo e un quadro astratto. Nel marchio collettivo abbiamo la descrizione del prodotto, una descrizione parziale – esattamente come avviene nel quadro figurativo in cui non può essere rappresentata tutta l’immagine, perché è un punto di vista determinato in determinate condizioni di tempo, quindi è una rappresentazione parziale –, ma è pur sempre una rappresentazione. Nel quadro astratto invece abbiamo un segno che rinvia a qualcosa, ma non abbiamo un riferimento o una descrizione specifica. Diciamo che la distinzione c’è, ma è soltanto formale, non sostanziale, e non sappiamo quanto questo possa giovare all’imprenditore all’inizio. Se, per esempio, in un’osteria compro vino sfuso, la volta successiva, anche se sono stato scontento, corro il rischio di prendere lo stesso vino. Mentre, se acquisto un vino di marca e non sono soddisfatto, la prima cosa che faccio è non comprarlo più.

Quindi il marchio può essere un grandissimo vantaggio, ma inizialmente è un rischio ed è estremamente difficile decidere che cosa può determinare il successo di un marchio, non ci sono criteri oggettivi. Generalmente, il consumatore non è in grado di valutare obiettivamente, ma si affida a sensazioni assolutamente soggettive e non prevedibili. Dopo l’acquisto, accade che l’acquirente si faccia un’idea, molto soggettiva e molto parziale, di quel prodotto. 

Questa idea nel suo pensiero è un’immagine astratta del prodotto, che può essere richiamata, da quel momento in poi, soltanto dal marchio. E questa idea, che con il tempo cambia, se non altro perché si sbiadisce il ricordo, viene sempre e in ogni momento rispecchiata dal marchio. Ogni volta che io nomino quella parolina, risorge il ricordo, cioè la mia immagine del prodotto esattamente com’è in quel momento. Non solo, ma parallelamente alla mia immagine, c’è quella di chiunque altro in qualsiasi momento e può aggiungersi, in alcuni casi, a milioni e milioni di altre immagini. E questa è proprio e soltanto la funzione di una parola che non significa nulla e anzi non deve significare nulla, perché solo non significando nulla può rispecchiare l’immagine ideale di ciascuno in modo fedele e costantemente fedele, accanto a milioni di altre immagini, tutte differenti e mutevoli.