ANDARE OLTRE

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responsabile Ricerca e Sviluppo e amministratore di SIR, Modena

La società occidentale sta conoscendo in questi ultimi anni un rapido e inesorabile declino: la colpa non può essere attribuita esclusivamente al susseguirsi di crisi finanziarie ed economiche, aggravate dagli affanni del mondo produttivo e dalla stagnazione del mercato del lavoro. In realtà, a ben guardare, queste macro anomalie non sono la causa del malessere dilagante, ma ne rappresentano invece l’effetto. E nella nostra nazione appaiono quanto mai ingigantite. 

La nostra società sta vivendo una gravissima crisi non solo di valori, ma principalmente di motivazioni, e questo si rispecchia in ogni ambito del mondo politico, economico e sociale.

La verità è che stiamo sopravvivendo a noi stessi, trascinandoci come un vecchio stanco e malato. Siamo in piena decadenza morale e civile, e lo spettro del declino si fa strada giorno dopo giorno, minando il nostro benessere e le nostre amate certezze, spesso difese a denti stretti e con il coltello in mano. Siamo come gli antichi romani, al tempo della massima espansione dell’Impero e, di conseguenza, della più elevata ricchezza: è quando si arriva al punto più alto che inizia l’adagiamento, il riposo sugli allori, la mancanza di stimoli, la ricerca del frivolo e del godimento fine a se stesso. Accadde ai romani allora, e l’Impero cominciò a cadere a pezzi a causa della mancanza di controllo, del venir meno della volontà di conquistare, della perduta capacità di guardare avanti. Nella certezza che il benessere fosse eterno, nell’antica Roma si smise di lavorare, di combattere, di pensare al futuro. In una parola, ci si fermò e fu l’inizio della fine.

Noi oggi siamo giunti allo stesso triste traguardo: una società che non ha più voglia di affrontare le sfide e di mettersi in gioco. 

Vale per l’Europa e l’intero mondo occidentale, ma vale ancora di più per un’Italia dove il substrato politico non contribuisce di certo a migliorare le cose.

Ma è molto comodo addossare le colpe alla classe politica senza considerare che i governanti della nazione sono lo specchio di noi stessi, singole persone e cittadini. In sostanza la colpa viene da tutti noi, perché noi siamo la politica, la famiglia e le aziende.

Ma come siamo potuti giungere a questo punto? La causa va ricercata nel fatto che viviamo e lavoriamo non per soddisfare bisogni primari, come le nazioni in via di sviluppo, ma per appagare solo ed esclusivamente piaceri secondari: vi è una bella differenza fra chi lavora per mangiare, studiare o assicurare un futuro dignitoso ai propri figli e chi invece lavora per andare in vacanza alle Maldive.

Abbiamo dedicato le nostre energie migliori al divertimento e al puro piacere, relegando il lavoro al secondo posto, rubando ad esso più tempo possibile.

Abbiamo passato anni a svolgere il nostro impiego con svogliatezza, vivendolo quasi come una maledizione, una sorta di sanguisuga dedita a rubarci tutto il tempo che poteva essere dedicato a vacanze e relax. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: questa società è implosa e, implodendo, si è richiusa su se stessa. L’Italia è divenuta una nazione senza spina dorsale, dove nessuno vuole più prendersi alcuna responsabilità: nel mondo pubblico come nel privato, assistiamo a un continuo rimbalzo di oneri e obblighi da un personaggio all’altro. Siamo un popolo che vive nel lassismo, senza mai rimboccarsi le maniche per risolvere i problemi, ma aspettando eternamente che giunga qualcuno a cambiare lo stato delle cose. Un popolo fiacco, che ha perduto l’antico e radicato orgoglio, senza più carattere, dedito esclusivamente e costantemente ad una sola attività: vivere al di sopra delle proprie possibilità, indebitandosi continuamente e diminuendo di conseguenza, giorno dopo giorno, la propria ricchezza. Un tempo eravamo famosi, in Europa, per essere grandi risparmiatori: le famiglie accantonavano denaro per una vita, per poter comprare una casa da lasciare in eredità ai figli, mentre nel resto del mondo si viveva per lo più in affitto. Ora l’italiano medio si indebita per passare le vacanze nei luoghi più belli e costosi del pianeta, arrivando a pagare a rate crociere e viaggi. Non credo sia il modo giusto di impostare la propria vita, specie nel lungo termine. Ma perché sempre più persone cadono in questo circolo vizioso? Essenzialmente perché la gente oggi vive in modo accelerato: non sa più aspettare, pretende tutto subito, esige ogni cosa sul piatto d’argento, dimenticando la regola fondamentale di una società fondata sul lavoro. Questa regola è molto semplice: esige che ogni cosa debba essere guadagnata. Può sembrare un concetto arcaico, ma purtroppo tutti dobbiamo sottostare a questa legge banale e antica come la notte dei tempi. Non accettarla o non riconoscerla significa ricadere in una serie di conseguenze ben visibili nel panorama odierno: i neolaureati o diplomati, ad esempio, non vogliono più svolgere compiti, mansioni o mestieri meno nobili, credendosi imprenditori o manager a ventitre anni, solamente perché hanno una laurea o un diploma in mano. Nessuno si vuole più sporcare le mani, piuttosto si preferisce rimanere in mobilità, lasciando che i tanti, tantissimi posti di lavoro che presuppongono attività meno entusiasmanti vengano occupati da milioni di immigrati. Le nuove generazioni preferiscono vivere a carico delle famiglie anche in età adulta, perché il sostentamento autonomo implicherebbe maggiori spese e minor benessere e divertimento. L’egoismo dilaga dal grande al piccolo, dal macro al micro, dalla politica alle famiglie: la stessa crisi delle nascite è un chiaro segnale di come si preferisca l’oggi al domani, il proprio appagamento personale alla sacrosanta necessità di creare un futuro. Fare figli implica impegno e responsabilità, ma soprattutto sottintende la presenza costante di un concetto ormai dimenticato: la rinuncia. Creare un futuro significa rinunciare un po’ a se stessi, al proprio divertimento e alla propria libertà. Significa disegnarsi un proprio percorso, senza egoismi e miopie, assumendosi la responsabilità e l’onere di pianificare la propria vita e lottando affinché la strada intrapresa giunga a un compimento. Ma sembra che il termine rinuncia sia uscito dal vocabolario italiano, che non interessi più a nessuno.

E sebbene da più parti si levino voci di monito che c’invitano a darci una regolata, per non cadere nel baratro che sta vivendo la Grecia, noi continuiamo imperterriti a riempire i luoghi di villeggiatura più esotici, sperperando denaro in beni fittizi, in bisogni che erroneamente percepiamo come primari, ma che rappresentano soltanto frivolezze, credendo e convincendoci che nulla può cambiare e che il benessere sia infinito o, peggio ancora, dovuto.

Ma se c’è una cosa che si può dire della vita è che essa non ha certezze, mai e comunque. Occorre quindi dare un colpo di spugna a ciò che ci appare facile e certo, ricostruendo dalle fondamenta un mondo e un modo di vivere più corretto. Occorre che il lavoro, garante del nostro sostentamento, torni ad assumere un ruolo di primo piano nella vita delle persone, e che l’impegno divenga un pilastro fondamentale di un nuovo sistema: impegno nella vita, nella famiglia, sul luogo lavorativo, affinché ognuno possa dare il proprio contributo per migliorare non solo se stesso, ma l’intera società. 

Occorre limitare il dilagare delle facili illusioni, riconquistando il brivido positivo di mettersi costantemente in gioco, accettando le sfide più ardue e ricercando le energie e la forza per superarle. In questo tutti devono svolgere il proprio ruolo: cittadini, imprenditori e politici. Anche gli addetti ai canali d’informazione dovranno fornirci un quadro del paese più sereno, evitando gli attuali, facili e polemici negativismi e disfattismi. È giunto il momento di staccarci dai soliti salotti televisivi dove si consumano discorsi inutili, dove tutti sono maestri ma in realtà nessuno ha mai realizzato e mai realizzerà nulla di concreto. La classe politica dovrà avere la forza di parlare in modo chiaro alla nazione, evitando di venderci per l’ennesima volta le solite illusioni, incentivando invece quanto vi è di positivo (ed è molto, malgrado tutto).

Le distorsioni della nostra società dovranno essere eliminate: la meritocrazia è uno dei pilastri fondamentali su cui dovrà essere costruito il nostro futuro. Ma, si badi bene, si dovrà premiare chi fa e chi produce e isolare i buoni a nulla senza ricadere nei consueti, insensati eccessi. È chiaro e lecito che i migliori al mondo in una determinata attività percepiscano un’adeguata remunerazione. Ma non possiamo permettere, perché è immorale e non sostenibile, che calciatori, attori, piloti e cantanti guadagnino in un anno ciò che un normale impiegato non guadagnerebbe in trecento. Questi esempi di distorsione della realtà vanno eliminati e tutti noi dobbiamo contribuire a cambiare lo stato delle cose: perché siamo noi stessi che riempiamo gli stadi ogni domenica per una partita o un concerto, osannando questa gente fino a farla sentire talmente indispensabile alle sorti del mondo da potersi permettere di richiedere compensi stellari. Le distorsioni della realtà sono costruite e create da noi stessi e di conseguenza il singolo individuo dovrà incominciare a eliminare sprechi e assurdità. Per fare questo, è necessario pensare al futuro, lasciando perdere l’egoistico presente. In caso contrario, cosa lasceremo alle generazioni che verranno? La cenere e le macerie della nostra decadenza, del nostro sperperare che non conosce tregua, del nostro godimento? È questa l’eredità che lasceremo ai nostri figli e ai nostri nipoti? Da sempre l’uomo, nel corso della storia, ha costruito opere e beni, materiali e non, da tramandare ai posteri. Possono essere opere d’arte e d’ingegno, o beni immateriali come leggi, conquiste del pensiero o del vivere civile.

Tutti noi oggi possiamo ammirare e trarre beneficio da ciò che il passato ci ha lasciato. Ma fra duecento anni cosa rimarrà della civiltà del benessere e del consumismo? Non rimarrà nulla, perché abbiamo lavorato solo per noi stessi e per il nostro piacere. Può sembrare pessimistico, può apparire catastrofico, ma è importante lanciare un monito alle nuove generazioni che dovranno costruire il nostro domani. Se riusciremo e riusciranno ad andare oltre, a pensare in modo differente, a cambiare radicalmente il modo di vivere, potremo ancora avere una speranza. In caso contrario, saremo irrimediabilmente destinati, nel giro di vent’anni, a non far più parte del novero dei paesi più sviluppati, scivolando lentamente nella povertà, surclassati da società dotate di più energia e voglia di fare, perché spinte da un diverso entusiasmo, una diversa onestà intellettuale, un diverso genere di bisogni. 

Per evitare tutto questo, la sveglia dovrà suonare forte e potente per ciascuno di noi: facciamo una volta per tutte la nostra parte, smettendo di pensare che qualcun altro debba assumersi l’onere al posto nostro, lavorando con impegno, orgoglio, passione, positività ed energia, dando il nostro contributo per raggiungere l’eccellenza, difendendo il nostro posto di lavoro. Sono convinto che possiamo farcela. Viviamo un momento drammatico, ma è proprio nel dramma e nella difficoltà che l’uomo, e in particolar modo l’uomo italico, estrae dal cilindro le energie migliori che rendono possibile l’impossibile. Occorre andare oltre. Oltre noi stessi e le nostre amate certezze. Per non fare la fine degli antichi romani.