N. 94 - Giu. 2021

Titolo copertina: 
L’INCONTRO CASUALE, BASE DELLA CITTÀ
Copertina: 
In qualità di autore di varie opere di diritto amministrativo urbanistico (il suo

Manuale di diritto urbanistico

vanta ben diciotto edizioni) che cosa può dirci dell’avvenire della città, anche alla luce della recente pandemia?

La pandemia, come una guerra, ha prodotto danni economici giganteschi, distruggendo migliaia di imprese e posti di lavoro. Perché la vita economica possa riprendere, occorrerebbero nuove idee, nuove tecniche e nuove normative che togliessero gli innumerevoli vincoli in materia urbanistica.
L’Italia ha avuto nel dopoguerra un boom straordinario. In primo luogo perché le città erano state in gran parte distrutte dai bombardamenti, poi perché non c’erano molti piani regolatori: si costruiva quello che serviva e che dava maggiore vantaggio economico.
Mentre oggi i piani regolatori, le Sovrintendenze e la magistratura frenano o bloccano i lavori per molti anni; nell’immediato dopoguerra intere città sono state costruite senza tanti orpelli, con qualche piccolo problema, ma con le forme più efficaci e utili, perché c’era il vuoto normativo. C’erano quasi soltanto le strade, perché la strada è la base della convivenza civile: potremmo benissimo edificare una città stabilendo solo il tracciato delle strade, forse riuscirebbe meglio di tutte.

Anche le nostre città sono in viaggio. Da dove vengono, dove vanno?

Per la città del futuro tornerei alla città greco-romana, in cui, fino al Medioevo e all’età moderna, gli edifici ospitavano sia l’abitazione sia la bottega (dove si svolgevano le attività artigianali e commerciali) con l’eccezione di alcuni palazzi nobiliari e pubblici.
Le nostre città, nella parte più recente

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cioè quella costruita tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si rifanno invece al modello anglosassone, che è nato con la scoperta della forza motrice del carbone: il quantitativo enorme di carbone bruciato per far funzionare le fabbriche comportava un forte inquinamento, per cui è incominciata la divisione tra zone industriali, direzionali, residenziali, commerciali e così via. Questa spartizione, come abbiamo visto, non esisteva nell’antichità, dove la parte produttiva e quella abitativa s’integravano.
Un’altra ragione dell’affermazione del modello anglosassone è di tipo culturale e trova le sue origini nel villaggio teutonico ben descritto da Tacito: piccole casette singole, con il terreno e un piccolo giardino tutto intorno, con esclusione totale sia delle fabbriche sia degli edifici pubblici. Questa tipologia separa anzitutto le zone residenziali dalle altre, per cui ogni zona esiste solo per il proprio uso specifico e i servizi privati e pubblici sono separati da quelli residenziali. Proprio da questa situazione nasce il pendolarismo, che prima era sconosciuto, con persone che abitano anche a un’ora di viaggio dal posto di lavoro. Questo sistema anglosassone, cui l’Italia si è adattata, ha praticamente sclerotizzato le nostre città a partire dalla fine dell’Ottocento.
Solo in alcune gli uffici sono ancora collocati insieme alle abitazioni, perché sono situati in edifici non recenti sparsamente collocati nel contesto urbano.

Con la pandemia si è formata una tipologia di lavoro, il telelavoro da casa e lo smart working. Cosa cambia per la città?

Il telelavoro non è specifico delle città moderne, è un evento forzato dalle emergenze sanitarie. Le persone che si trovano a lavorare a casa, con i bambini e le altre faccende domestiche, lavorano male e sono isolate. L’Italia e la sua industria sarebbero, a mio avviso, danneggiate se il telelavoro persistesse.

Però, alcune delle grandi multinazionali, come l’Enel, stanno dismettendo molti uffici in città, perché la maggioranza dei lavoratori viene costretta a lavorare da casa. Questo comporta lo spopolamento di bar e ristoranti che vivevano grazie a chi andava al lavoro.

Certo, e comporta anche la distruzione della città come luogo di funzioni miste. Le funzioni devono essere miste, perché la gente che cammina per strada deve mescolarsi: ci devono essere gli impiegati, gli operai e coloro che svolgono varie attività. Se non c’è questa combinazione, non è una vera città.

Si può dire che la città favorisca il viaggio, mentre lo stare chiusi a casa lo ostacoli, malgrado la possibilità di collegarsi online?

Il viaggio, che è l’avventura nel percorso, non il punto di arrivo, comporta l’incontro con chi fa cose diverse o con nuove realtà e un altro modo di affrontarle.

Ma la comunicazione è anche quella che si svolge online. Perché questo tipo di comunicazione è diverso?

Perché nella comunicazione online non c’è casualità: comunichiamo con chi ci chiama o chi contattiamo perché lo abbiamo voluto, magari per necessità lavorative. L’incontro non è questo, l’incontro esige l’imprevisto, il fatto che io incontro casualmente per strada un amico o un semplice conoscente e gli chiedo cosa sta facendo, per cui acquisisco informazioni che mi forniscono elementi utili per altre situazioni.
Quel che vale è lo scambio di proposte e di idee, quel che possiamo chiamare la comunicazione culturale.
Nella comunicazione tramite sistemi elettronici, la comunicazione è regolata e disciplinata, mentre i più importanti scambi culturali non possono essere gestiti tramite videochiamata.
La cultura nasce dal modo di vivere della gente che, vivendo, produce cose inedite, che tu non sapevi nemmeno esistessero, cose che incontri casualmente.
L’incontro casuale è la base della città e della sua cultura